La musica che ci unisce: è un atto (anche) politico?

Nel cuore del Museum aan de Stroom, noto semplicemente come MAS, a Anversa, c’è una sala che vibra di luci e movimento. Su grandi schermi, centinaia di video scorrono in simultanea: danze tribali, TikTok, riti sacri, rave party, matrimoni, performance di strada. È Universal Tongue, l’imponente progetto dell’artista olandese Anouk Kruithof, che ha raccolto oltre 8mila e 800 video provenienti da 196 paesi. Ci mostrano il linguaggio universale della danza.

Universal Tongue a pare anche una sorta di esperimento antropologico (e dal profondo significato politico). Ogni schermo è una finestra sul mondo; ogni gesto, un segno di appartenenza e di libertà. Le immagini non hanno bisogno di traduzione — basta guardarle per capire che, ovunque, donne e uomini, giovani e anziani, tutti e tutte sentono il bisogno di muoversi al ritmo del suono, di trasformare la musica in corpo. Il progetto artistico di Kruithof ci trasporta in uno spazio in cui le identità si incontrano e si trasformano attraverso la danza, che emerge chiaramente come una forma di conoscenza corporea e condivisa, un linguaggio universale che unisce tutti.

L’universalità di musica e melodie sono ormai oggetto anche di diversi studi condotti su decine di culture. I risultati mostrano non solo come tutte le società umane cantino e ballino, ma anche che persino chi ascolta musica di un popolo sconosciuto riesce a riconoscerne la funzione — ninna nanna, danza, canto d’amore. Il ritmo, insomma, è un codice primordiale. Non appartiene a nessuna lingua, eppure le contiene tutte. È anche la prima forma di comunicazione che sperimentiamo — il battito del cuore materno, il respiro, il passo. Forse è per questo che, in ogni latitudine, la musica e il ballo riescono a unire ciò che le parole spesso dividono. E infatti, osservando le sequenze di Universal Tongue, si è catapultati in un’euforia diffusa, contagiosa, che attraversa i corpi più diversi. Dai ballerini professionisti ai bambini di un villaggio africano, dai club di Berlino ai matrimoni indiani, fino “ai corpi” degli spettatori in sala: tutti si muovono, tutti ballano. A guidare i movimenti non è solo la ricerca estetica ma socialità pura. E in quello spazio, si sta bene, ci si sente bene.

Già perché la musica, con le sue melodie e i suoi ritmi, è molto più di un semplice piacere per l’orecchio: è cura per il corpo e per la mente. Numerosi studi dimostrano che ascoltare o fare musica riduce lo stress e la percezione del dolore cronico, stimola la produzione di endorfine e contribuisce a migliorare l’umore. La musica aiuta a favorire il recupero di funzioni motorie e neurologiche dopo un ictus o un trauma cerebrale, e migliora le capacità cognitive in persone affette da demenza o Alzheimer. La musicoterapia, poi, mostra un potenziale straordinario quando è utilizzata con chi soffre di disturbi del linguaggio o, in particolare, con bambini nello spettro autistico. Li aiuta a comunicare e a relazionarsi; diventa un linguaggio alternativo, un ponte tra corpo e mente.

Secondo Steven Mithen, archeologo e professore all’Università di Reading (Gran Bretagna) e uno dei pionieri dell’antropologia cognitiva, la musica affonda le sue radici nella nostra biologia più profonda. La musica, insomma, sembra essere scritta nel nostro DNA. Basti pensare che flauti e altri strumenti musicali sono stati rinvenuti tra i resti dei Neanderthal, datati oltre 50’000 anni fa. Si tratta di una testimonianza affascinante di quanto antica sia la nostra inclinazione a produrre suoni organizzati; suggerisce che i Neanderthal utilizzavano il canto, il ritmo, il movimento e il suono per creare coesione sociale, favorire la cooperazione e rafforzare il senso di appartenenza al gruppo. Un sistema che, per Mithen, avrebbe preceduto e forse accompagnato la nascita del linguaggio verbale vero e proprio. In altre parole, prima ancora di imparare a parlare, abbiamo imparato a cantare. E forse è per questo che, ancora oggi, una melodia riesce a commuoverci, a unire le persone, a farci sentire parte di qualcosa di più grande.

Certo, definire la danza o la musica “universali” non vuol dire renderle uniformi. Il progetto di Kruithof rivela quanto la diversità sia la linfa stessa di questa universalità. Ogni gesto, ogni ritmo porta con sé una storia, una geografia, una voce. Le danze urbane nate a New York si mescolano con quelle di Lagos o di Rio, in un flusso continuo di scambi culturali che il digitale accelera ma non appiattisce. In questo senso, universalità non è sinonimo di omologazione, ma piuttosto di risonanza: capacità di sentirsi parte di un ritmo più grande, pur mantenendo la propria identità.

Ecco che allora, forse, è proprio questo il messaggio più potente di Universal Tongue — e, più in generale, dell’arte del suono e del movimento: il corpo e la musica come ponti tra le culture e strumenti di benessere condiviso. In un’epoca di crisi e disconnessione, ballare o ascoltare insieme diventa un atto politico, un modo per ritrovare il senso del “noi”. Perché quando il ritmo parte, le differenze si sospendono. Restano i battiti, i passi, i sorrisi. E in quell’istante — anche solo per un momento — siamo tutti parte della stessa danza.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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