La ricchezza dei Paesi poveri e la conoscenza dell’Altro

Sempre più frequentemente governi, organizzazioni internazionali e aziende attive a livello globale trovano indispensabile coinvolgere nel loro lavoro le organizzazioni non governative (ONG). Eppure oggi queste stesse entità stanno diventando sempre più critiche nei confronti delle ONG al punto da metterne in discussione la loro legittimità. 

Il panorama è in chiaroscuro. Da un lato, le organizzazioni non governative sono diventate attori chiave nella risposta alla povertà e alle relative sofferenze in vari paesi in via di sviluppo, dall’Africa al Sud America – e non solo in questi luoghi – promuovendo progetti volti a fornire assistenza sanitaria, educazione ambientale e istruzione. Dall’altro le ONG rispondono anche delle logiche del profitto: poiché dipendono in larga misura dai finanziamenti, i progetti delle organizzazioni internazionali risentono delle preferenze dei donatori piuttosto che di quelli di quanti, presumibilmente, rappresentano.

Questo significa che le attività da loro svolte nell’ambito della cooperazione internazionale non hanno alcun ruolo nella lotta alla povertà e l’ingiustizia, ad esempio? Siamo di fronte a un mondo, quello della cooperazione internazionale, dai connotati e tratti tipici della soft colonisation?

Ho cercato di capirne di più, facendo una lunga chiacchierata con una volontaria che ha operato in prima persona in Sud America – in Bolivia. Qui, la chiamerò Laura.

Laura mi ha spiegato come le comunità rurali andine, per quanto abbiano una relazione intima e profondo con la natura, abbiano una consapevolezza limitata dell’inquinamento ambientale o di pratiche virtuose come quella relative alla costruzione di cucine per ridurre i focolai a cielo aperto – che utilizzano combustione della legna tra la popolazione indigena – oppure che riguardano il riciclo della plastica o dell’igiene (tema che abbraccia dalla la sensibilizzazione contro la defecazione all’aria aperta a campagne nelle scuole per informare sul virus dell’HIV).

E di fronte a questo background, capita che volontari e volontarie dimentichino il dialogo con “gli altri”. Me lo racconta la mia interloqutrice: “fu disturbante vedere come, quando si tornava a monitorare l’utilizzo delle cucine tra gli indigeni, questi ne facevano uso per appoggiarvici i vestiti”. Si era sì proceduto pensando alla costruzione di cucine ma non c’era stata alcuna vera attenzione alla comunicazione con le persone del posto, nello spiegare loro l’uso delle cucine e perché esse erano preferibili a quelle normalmente usate”.

È giovane, questa ragazza che ho di fronte e che ripercorre con me la sua esperienza di volontariato. Vedo nei suoi occhi ambizione e speranza, la forza di sognare per un mondo più eguale. Non c’è sprovvedutezza – ha studiato, Laura, conosce diverse lingue, anche quella del luogo. 

Mi ricorda le parole di un docente che le sta a cuore, Stefano Zamagni. Le diceva, sempre, che se vogliamo raggiungere la realizzazione dell’uguaglianza è necessario abbandonare il paradigma economico corrente che parte dal presupposto che l’uomo sia un lupo per gli altri uomini (homo homini lupus). Al suo posto, andrebbe messo il paradigma dell’homo homini natura amicus, il quale implica che ogni uomo è per natura amico dell’altro uomo e porta a impostare le proprie relazioni (anche economiche) mirando al bene comune. E’ un modo di pensare – scopro parlando con la volontaria che ho di fronte a me – che esiste tra le tribù dell’Africa. Là usano la parola“ubuntu”: si riferisce alla capacità di esprimere solidarietà mutuale con l’altro. Il colonialismo europeo ha cercato di cancellare la portata di questo concetto. Ma non l’ha sepolto!

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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