L‘accettazione e le sue conseguenze (Malesia-seconda parte)

Il nostro viaggio in Malesia, come si può evincere dal mio precedente articolo dal titolo “Sulle tracce di Salgari o forse no” è stato un susseguirsi di piacevoli sorprese e di aspettative superate.

Molte caratteristiche peculiari di questo paese sono da ritenersi esempi di modernità e modelli riusciti di convivenze interculturali e religiose. 

Ma ci hanno particolarmente colpito anche alcune modalità di adattamento a certi contesti o condizioni.

Esiste un flusso nelle grandi città, che impedisce alle persone di perdere la ragione nel traffico intenso e lentissimo. Consiste in una sorta di tacito accordo in cui, mantenendo un andamento costante e senza scossoni permette ai conducenti di inserirsi, girare e concedere agli altri di entrare nelle lunghe file, senza mai utilizzare il clacson né tantomeno improperi vocali. L’accettazione calmissima con cui gestiscono questa condizione potenzialmente stressante ci ha affascinato molto, per quanto penso sia un approccio riscontrabile in molte altre città asiatiche. 

Non si può gestire una vita frenetica all’occidentale, cadenzata di impegni fissi e imprescindibili, dovendosi spostare in macchina per la città. Lo accettano ed entrano nel flusso, un flusso di centinaia di macchine che procedono a passo d’uomo come se non potesse che essere così. Lentamente si avanza finché qualcuno apre un varco e lascia passare. Non ci sono gestacci come non ci sono segni di ringraziamento. Si è parte dello stesso ingranaggio, la fretta è bannata come le priorità individuali. E così mentre noi il giorno del rientro ci dannavamo nello stress di perdere l’aereo, ho provato a calmarmi osservando il nostro autista. “È così.”, sembrava dirmi, “Non cambia nulla il tuo atteggiamento su questa condizione esterna, quindi tanto vale rilassarsi e lasciare che sia.”

Per la cronaca, l’aereo poi non l’abbiamo perso, perché era a sua volta in ritardo di due ore. 

L’accettazione è un elemento fondamentale di molte culture e contesti asiatici, che però per altri aspetti ha risvolti estremamente negativi.

Non ci abbiamo impiegato molto tempo a renderci conto di un’imponente ombra che aleggia ovunque, dai grandi o piccoli centri urbani alle isole incontaminate: la spazzatura. È presente ovunque: ai bordi delle strade, sulle spiagge, portata dalle mareggiate notturne, persino in mare lungo scie galleggianti avvistate dal traghetto. 

Erano per lo più bottiglie di plastica e non è difficile immaginarne la quantità spropositata che viene utilizzata in un paese (per non parlare dell’intero continente) in cui l’acqua corrente non è potabile. Un circolo vizioso privo di soluzioni e di sensibilizzazione sul problema. 

Imbarazzanti i nostri maldestri tentativi di ripulire almeno la spiaggia dove alloggiavamo, con sacchetti improvvisati per raccogliere il più possibile. La mattina dopo la situazione si ripresentava identica.

Anche questo purtroppo è parte dello stato di cose che vengono accettate per quello che sono. 

Il nostro livello di schock e tristezza nel vedere luoghi così paradisiaci invasi dalla plastica sarà sicuramente risultato eccessivo ai loro occhi, così come in noi ha cominciato a vacillare la nostra stessa sensibilità al problema. 

Ci siamo chiesti quanto impatto nel mondo abbia la gestione della differenziata in Europa, per esempio, o l’attenzione verso la diminuzione dell’utilizzo di contenitori di plastica a favore di materiali riciclabili, di fronte alle lunghe scie di spazzatura che galleggiano in tutti i mari asiatici. L’interesse verso le macchine elettriche, uno stile di consumismo attento e responsabile, tutti quei piccoli gesti quotidiani che tentiamo di ricordare per assolverci dal nostro impatto sull’ambiente che valore acquisiscono nella totalità della realtà mondiale?

Non sono domande che portano risposte. Non ancora, per lo meno, ma fanno parte di un processo di ridimensionamento che questo viaggio in Malesia ci ha innescato. 

Spostarsi da una visione europeista del mondo, dagli aspetti virtuosi a quelli più arroganti e sovranisti, indubbiamente migliora il proprio approccio alla realtà. 

E forse questo è stato il senso più profondo e impattante della nostra esperienza molto lontani da casa. 

Seguici

Cerca nel blog

Chi siamo

Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

Ultimi post

La grande Storia con i pupazzi

Arriva nelle sale svizzere un nuovo film d’animazione che racconta le migrazioni novecentesche attraverso le Alpi. Per gentile concessione del quindicinale Area pubblichiamo una recensione

Leggi Tutto »

Una risposta

  1. La “visione europeista” del mondo…credo sia una distorsione lagata alla (sbagliata) convinzione che i nostri modelli possano essere in qualche modo esportati, perche ritenuti i piu’ appropriati. Ho vissuto e lavorato in molti paesi, e da tempo ho realizzato che i diversi modelli che ho visto, hanno un senso ed una loro giustificazione che talvolta ci sfugge e che supera di gran lunga qualunque nostra intima convinzione. Parli di plastica rilasciata nell’ambiente, e sono daccordo con te sul fatto che questo fattore, nel Sud Est Asiatico, sia un problema. Ma cosa ti fa stabilire che questa sia “l’emergenza” per definizione? Io dirigo una ONG, qua in Cambogia. per cultura, inorridisco nel vedere che le comunità’ locali bruciano i loro rifiuti, inclusa la plastica, direttamente in fronte alle loro case, mentre i bambini giocano tutt’intorno, respirando i fumi velenosi di queste combustioni quotidiane. Esiste pero’ una precisa scala di valori nell’ambito delle “Operazioni di Cooperazione Internazionale”, che va ben oltre il mio personale sentire. Ed e’ per questo che a malincuore, preferisco focalizzare le nostre azioni nel combattere priorita’ molto piu’ pressanti. Qui da noi ancora oggi un bambino su cinque, non supera il quinto anno di vita, per problemi connessi alla contaminazione batterica dell’acqua. Problemi apparentemente stupidi come la diarrea, creano le condizioni per cui un qualunque altro virus crei sfracelli. Solo la scorsa settimana, in un villaggio di 100 famiglie, abbiamo perso sette bambini tra i sei e i dodici anni, per le conseguenze della Dengue. Come e’ possibile morire di Dengue? E questa e solo la punta dell’iceberg di una infinita teoria di drammi quotidiani che respiriamo, spalla a spalla con la gente che cerchiamo di sostenere. Percio’…si, la plastica…ma io non me la sento di dire ai miei ragazzi (tutti cambogiani) di andare nei villaggi ad imporre sistemi di raccolta dei rifiuti. Qui si combatte una guerra che si gioca su temi ben diversi da quello che gli Europei credono. E gia’ cosi’, e’ una guerra che siamo destinati a perdere. Tra i disastri che cerchiamo di contenere…la plastica rilasciata nell’ambiente ancora non possiamo definirla priorità’, cosi’ come le morti per incidenti stradali, soprattutto tra i bambini fino a 4 anni, i cui numeri farebbero impallidire chiunque.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *