L’epigenetica e la nostra eredità emotiva

Sono anni che rifletto e mi interrogo sull’affascinante e anche inquietante possibilità che esista un patrimonio genetico emotivo che ci è stato assegnato dai nostri genitori e dai nostri nonni. Una sorta di eredità inconscia e invisibile.

Forse è per questo che mi sono subito sentita chiamata da questo libro e dal suo titolo “Epigenetica”, che ho scoperto trattarsi di una branca della genetica che si occupa dello studio di tutte quelle modificazioni ereditabili che portano a variazioni dell’espressione genetica  senza alterare il DNA, quindi, di fatto, invisibili. Sembra più un titolo da saggio ma in realtà è perfetto perché proprio di questo parla in versione romanzata.

Maria è una donna che scappa. Scappa dai luoghi, in cui non riesce a radicarsi, dai ruoli, ma soprattutto dalle responsabilità emotive, perpetuando una catena di abbandoni che è tutto ciò che conosce e che le è stato trasmesso. Il padre, infatti, sparisce quando lei è una bambina, ritrovandosi ad assistere alla rapida caduta di sua madre, affetta da gravi disturbi mentali, fino all’inevitabile secondo distacco da lei e dai suoi due fratelli, tutti affidati a famiglie e istituzioni diverse.

Maria cresce aggrappandosi alla sua unica grande risorsa: il suo talento nello studio e in particolare nella scrittura, che vive al tempo stesso come un fuoco sacro e una condanna.

“Scrivere per me è una lotta contro un cumulo di stracci per arrivare al punto, segnato il quale sento ogni forma di endorfina invadermi, come una liberazione. Ho cercato qualsiasi inciampo per non buttarmici, perché scrivere è un processo doloroso, immersivo, ipnotico. La scrittura a un certo punto però chiama , come un dovere ineluttabile. Mi sono spesso resa latitante e sottratta per paura, perché la vocazione è sacra e non sempre le parole sono giuste, ma quando affiorano è come montare su una slitta che trova furibonda il suo percorso nella neve fresca. Capita che io riesca a lasciare solo piccole orme banali. E questo fa male, perché non ho tributato il giusto sacrificio al Dio della scrittura che mi ha salvato a Grado, quando le parole diventavano un gioco per occupare i pomeriggi lunghi e lividi. E nel convento, quando l’angoscia ricopriva come una glassa i corridoi scabri. Allora le parole erano il mio unico scudo. Le infilavo una dietro l’altra, creando un piccolo foro dal quale usciva la brutale nostalgia per mia madre e i miei fratelli. Volevo fare la scrittrice per potermi unire ancora a loro nel mondo bislacco in cui avevamo vissuto fino a quando i dignitari con la fiamma argento avevano distrutto tutto.”

Da adulta diventerà una scrittrice di fama ma, come è facilmente intuibile, la popolarità non colmerà nessuno dei suoi vuoti. È assuefatta dal successo ma la felicità continua a sfuggirle, a spostarsi.

Maria non è un personaggio che si fa voler bene eppure, grazie alla magistrale scrittura di Cristina Battocletti, che scandaglia l’animo umano con una precisione chirurgica e una verità commoventi, noi ci ritroviamo a sperare che lei ce la faccia, che la smetta di provare quel sadico gusto nel provocare gli altri, di spingere via le persone e gli affetti, ma soprattutto che trovi la forza di spezzare il circolo vizioso della sua epigenetica.

Maria deve convivere con la più pesante delle colpe, la più grave e ingiustificabile nel nostro immaginario culturale: l’aver abbandonato suo figlio Emanuele, ancora bambino, così come il padre e poi la madre hanno fatto con lei.

Il tema della maternità è molto trattato nel romanzo, ma senza tabù, accantonando l’immagine edulcorata che il nostro contesto sociale si ostina a tramandare e mettendo in luce tutte le contraddizioni interne, le paure e gli anfratti bui di un ruolo spesso riconosciuto degno solo dentro regole ed espressioni molto definite e limitanti.

Le due figure materne che vengono rappresentate sono quelle della madre di Maria e di Maria. La prima materialmente incapace di prendersi cura dei suoi figli, una madre-bambina che sa sorprendere con la sua fantasia e i suoi guizzi di euforia giocosa, ma che poi ripiomba nel suo tunnel di indolenza e depressione, non riuscendo neppure più a gestire la sussistenza di base. Sua figlia, Maria, nome altamente simbolico, che, diventata madre, avrebbe la lucidità e la maturità per potersi occupare di suo figlio Emanuele, ma non ce la fa a stare dentro le regole di quel ruolo e scappa.

“Epigenetica” tocca corde sensibili e porta a domandarsi quali comportamenti relazionali ed emotivi siamo, nostro malgrado, portati a perpetuare sugli altri e su noi stessi. Da dove ci arrivano? Chi ce li ha affidati e perché?

Il tutto reso con una scrittura cruda, pungente e lucidissima, che porta a chiedersi, a chi scrive e vuole farlo per mestiere, se sarà mai in grado di raggiungere quel livello di essenzialità perfetta.

Un romanzo che consiglio caldamente di recuperare e che, vi assicuro, resterà a lungo, oltre la sua ultima pagina.  

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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