In Belgio esiste un piccolo centro cittadino dove le persone con disturbi mentali non vivono ai margini, ma fanno parte integrante della comunità: le si incontra al mercato, per le strade del borgo, ma anche nelle cucine e nelle case di famiglie “comuni” che se ne prendono cura, ogni giorno. Siamo a Geel, un paese delle Fiandre situato a meno di un’ora d’auto da Anversa. Qui, da oltre 700 anni, gli abitanti accolgono nelle loro case uomini e donne, giovani e anziani con disturbi psichiatrici cronici, continuando una tradizione di accoglienza che si tramanda di generazione in generazione.
Secondo la leggenda tutto va fatto risalire al culto salvifico di Dimfna, principessa irlandese uccisa dal padre, che l’avrebbe voluta sua sposa, proprio nella cittadina belga. Che si creda o meno alla tragica vicenda di Dinfna, tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo a Geel fu edificata una chiesa per il culto della santa e poi un ospedale per provvedere alle cure degli abitanti locali e delle persone affette da disturbi mentali portate in questo luogo delle Fiandre per venerare le reliquie della santa, sperando nella “grazia” e di ritrovare la sanità.
Oggi questa terra continua a tenere in vita il valore della cura “condivisa”, ma lo fa con metodo e scienza grazie all’Openbaar Psychiatrisch Zorgcentrum (OPZ), il centro pubblico di cura psichiatrica. Tra le sue stanze e soprattutto fuori dalle sue mura sussiste un programma terapeutico che unisce cura, responsabilità condivisa e integrazione sociale. Siamo riusciti a parlare con Michelle Lambrechts, assistente sociale, e Wilfried Bogaerts che lavora come psicologo all’OPZ.
Attualmente, a Geel sono ospitate un centinaio di boarders (letteralmente, “ospiti” che affittano un alloggio, incluso il vitto; si pensi alle “boarding school”, i collegi). Si tratta di persone che non sono in grado di vivere in autonomia, ma neppure con la loro famiglia d’origine; per loro essere inserite nel sistema di foster family care (o accoglienza eterofamiliare) rappresenta un’alternativa al ricovero in una clinica psichiatrica. Nell’intervista la parola “pazienti” non fa mai capolino. Il team medico preferisce parlare di individui con difficoltà cognitive (circa un terzo degli ospiti soffre di schizofrenia o disturbi psicotici, un altro terzo ha disabilità intellettive, e il resto presenta altre condizioni psichiatriche complesse), ai quali viene comunque riconosciuto un ruolo attivo nel processo di integrazione nei nuovi nuclei familiari — tanto per cominciare, per accedere all’OPZ e al programma di accoglienza in famiglie è necessario che siano gli ospiti stessi a farne domanda, previa consultazione con un medico. Non solo. Come sottolinea Bogaerts, la giornata di queste persone è strutturata nei dettagli ma in modo che si arrivi al loro inserimento nel nucleo familiare che li ospita e, se possibile, anche nel tessuto sociale circostante, riducendo stigma e isolamento di cui soffrono le persone con malattie mentali: «quasi un quarto dei boarders svolge un’attività all’interno della casa affidataria, mentre la maggioranza partecipa a programmi diurni organizzati dall’ospedale. Una piccola percentuale, poi, circa il 2%, è inserita in contesti lavorativi o scolastici».
L’età media dei boarders a Geel, spiegano i responsabili, è di circa 60-65 anni. Tuttavia, questo non significa che il programma di foster care sia destinato esclusivamente alla terza età. «Attualmente – nota Bogaerts – la persona più giovane accolta ha circa 6-7 anni, mentre la più anziana ha oltre 90 anni. La presenza di giovani è poco frequente “semplicemente” perché di solito chi accede al programma lo fa dopo decenni di trattamenti psichiatrici e con una lunga storia di disturbi mentali.»
E le famiglie affidatarie? Sono nuclei familiari selezionati da un team preparato e che «devono vivere entro 25 chilometri dall’ospedale, per permettere al personale medico di intervenire rapidamente in caso di bisogno», spiegano. In ogni caso, le famiglie non sono lasciate sole nella gestione dei boaders: da un lato il personale sociosanitario effettua infatti incontri domiciliari regolari per verificare che la convivenza proceda positivamente, dall’altro gli ospiti delle famiglie hanno visite ospedaliere regolari ricevere eventuali terapie o farmaci necessari. L’aspetto che stupisce maggiormente, forse, ha a che fare con la durata della convivenza: «non è raro che un “ospite” rimanga nella stessa casa, rimanendo con i figli dei genitori ospitanti. In media, si rimane nel programma di foster care per 29 anni, con un record di quasi 80» precisa Lambrechts.
Leggendo i dati di documenti ufficiali, il numero degli ospiti è oggi molto inferiore rispetto al passato: nel 1938 gli individui ospitati arrivarono a essere più di 3700, tra gli anni 1970-1980 erano più di 1000, e nel 2000 erano circa 550. Si tratta in realtà di un dato che si spiega alla luce dei cambiamenti nella psichiatria contemporanea: «Il governo belga – spiega Bogaerts – ha deciso, circa dieci anni fa, di riorganizzare e ristrutturare il sistema di cura della salute mentale con l’obiettivo di creare, in ogni regione del paese, una rete strutturata di servizi psichiatrici più integrati e coordinati del passato, offrendo così una gamma di servizi articolati su cinque funzioni principali». Si va dalla prevenzione e intervento precoce, al supporto mobile e comunitario, all’inclusione e alla reintegrazione delle persone con problemi di salute mentale nella comunità, promuovendo ad esempio attività sociali e il collegamento con i centri di cura mentale; al trattamento residenziale in centri ospedalieri (anche se si cerca di evitarlo); al sostegno abitativo e soluzioni a lungo termine per chi non può tornare a casa, con strutture di residenzialità psichiatrica e programmi specifici pensati per persone con gravi problemi di salute mentale. In questo panorama, grazie ai miglioramenti nella terapia e riabilitazione psichiatrica, i pazienti tendono a rimanere vicino alle loro famiglie e a venir seguite da un’équipe mobile. E là dove non è possibile, ecco che qui entra in gioco l’opzione di cura prevista dal “modello Geel”.

In Belgio esiste un solo altro centro come quello di Geel (tra l’altro aggiunto alla lista del patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO) e si trova in Vallonia. In Europa si sono diffusi negli anni modelli simili e anche in Italia è stato attivato il progetto IESA, ovvero Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti: prevede, appunto, la presa a carico di un individuo con disturbo mentale da parte di una famiglia.
Ci si sta rendendo conto, insomma, degli enormi vantaggi dell’inclusione in “famiglia” come cura. Dal punto di vista economico, questo sistema permette di abbattere notevolmente i costi a carico della sanità: anche se ciascuna famiglia ospitante riceve un contributo al fine di coprire le spese sostenute per ogni ospite, il costo finale necessario per sostenere l’accoglienza in una famiglia è comunque molto inferiore rispetto al costo di un’ospedalizzazione, sottolinea Bogaerts, che però aggiunge subito come non si tratti sono di un mero calcolo monetario: «la relazione che si crea tra ospite e famiglia è fondamentale nel percorso di recupero: offre un senso di appartenenza, di ‘normalità’ ritrovata. Si vive in un ambiente familiare, si entra a far parte di una rete di relazioni, si è riconosciuti nel vicinato, come parte della comunità. Si tratta di prendersi cura l’uno dell’altro. Quando il percorso di cura si stabilizza, si osservano miglioramenti significativi: le persone diventano più autonome, le competenze sociali si rafforzano». Non da ultimo, spesso si può ridurre persino l’intensità della terapia farmacologica, in un’ottica di maggiore equilibrio e qualità della vita: «le persone seguite dall’OPZ e inserite in famiglie affidatarie tendono ad avere bisogno di meno farmaci rispetto a chi resta in carico all’ospedale».
