Era da tempo che volevo recuperare i libri di Murata Sayaka, una tra le scrittrici contemporanee giapponesi più seguite e controverse. Le vicende che racconta, spesso distopiche o ambientate in società immaginarie, puntano apertamente alla provocazione critica dei valori capitalistici e della conformazione sociale, sia dal punto di vista economico che, soprattutto, da quello umano.
Passando dal cannibalismo all’omicidio legalizzato, Murata Sayaka sbaraglia tutte le convenzioni sociali più radicate, ribaltando anche il concetto di coppia etero tradizionale in favore di possibilità di incontro più fluide e dal suo punto di vista funzionali. Ma indubbiamente il fulcro tematico o meglio la domanda intorno a cui ruota tutta la sua produzione artistica è: cosa significa essere “normale”?
È una domanda potentissima che non soltanto accende la riflessione su diversi piani, tutti quelli su cui siamo chiamati a esporci e raccontarci, ma spinge il lettore stesso a prendere le misure rispetto ai personaggi delle sue storie, per valutare la propria personale percezione di normalità e di conseguenza riflettere sulla propria collocazione sulla scala.
La conformità a un modello è la base su cui deve poggiare un sistema sociale. Gli individui per sviluppare appartenenza e quindi cooperazione devono aderire a tutta una serie di precetti che hanno determinato le caratteristiche di quel dato gruppo sociale. Grazie a questi “paletti” una società resiste, si sviluppa e rinforza. Ma c’è come sempre l’altra parte della medaglia: in cambio della sicurezza che ci dà il riconoscimento cediamo alcune libertà, come quella di espressione. Nessuno formalmente ti impedisce di mostrarti nella tua originale unicità, ma sai già di dover pagare il prezzo dello sguardo e del giudizio perché stai uscendo dai ranghi.
C’è chi ha le risorse e la forza di poterlo sostenere e chi preferisce adeguarsi agli standard.
È questo il nodo intorno a cui ruota la vicenda di Furukura Keiko, protagonista del romanzo più famoso di Sayaka “La ragazza del convenience store” edito da E/O.
Keiko è una donna di trentasei anni, single, che da diciotto lavora nello stesso kombini, una sorta di piccolo supermarket che fornisce anche pasti take away, aperto 24 ore su 24.
Fin da bambina viene considerata “strana”; introversa, senza nessun hobby o talento particolare, poco incline all’ambizione e tanto meno alla ricerca di un compagno per poter costruire una famiglia.
Bastano questi pochi elementi per categorizzarla come una disadattata fallita.
La realtà è che Keiko il suo posto lo ha trovato e non avrebbe nessuna intenzione di modificare il suo equilibrio perfetto in cui tutta la sua esistenza ruota intorno al kombini, alle sue regole e ritmi. La vita fuori dal negozio è pura sopravvivenza: si prende cura del suo corpo, lo nutre, lo fa riposare il giusto, solo in funzione dei suoi turni, per poter essere una commessa sempre più efficiente e preparata.
Il suo lavoro appare più come una missione, con rituali e codici prestabiliti, a partire dalla vestizione. Indossare la divisa significa per Keiko spogliarsi della sua personalità di comune essere umano per diventare “la commessa del kombini”, un ruolo che, grazie alla sua esperienza pluriennale, sa svolgere meglio di qualsiasi altro commesso del negozio. Perché trattandosi di un lavoro part time, senza nessun tipo di aspettative carrieristiche, risulta l’impiego perfetto per studenti universitari o casalinghe che vogliono arrotondare le entrate ben più cospicue dei mariti. Nessuno dei suoi colleghi è rimasto quanto lei, che negli anni ha visto cambiare solo il personale, in un ambiente sempre uguale a sé stesso.
Tutto questo rassicura Keiko: la regolarità delle mansioni, il meteo esterno che matematicamente influenza le vendite di prodotti caldi o freddi, le procedure per promuovere i gli articoli in offerta e l’entusiasmo esasperato con cui insieme al responsabile ci si ripete il motto prima di cominciare il turno.
Tutto è prevedibile, protetto da un esterno che spinge, soffoca, esige aspettative conformi alla sua età. E lei risponde con le bugie, inventandosi problemi di salute cronici suoi o di qualche famigliare per giustificare il fatto di non aver mai cercato niente di più remunerativo e prestigioso. Ma il “problema” percepito all’esterno del kombini riguardo alla sua vita solitaria e appagata incrina inevitabilmente anche il suo equilibrio.
L’arrivo di un nuovo commesso, indolente e cinico, la porterà a mettere in discussione le sue sicurezze. Anche Shiraha appare agli occhi della società come un reietto, e in quanto uomo, la sua incapacità di applicarsi in qualcosa lo inchiodano ancora di più al giudizio, che nella sua frustrazione rigetta su Keiko con rabbia.
“-Sei una donna inutile e finita se non fai quello che si aspettano da te. Sei solo un peso per gli altri.- le dice durante uno dei suoi sfoghi mentre lei cerca con inesauribile pazienza di addestrarlo al sacro lavoro nel Kombini. Ma forse due emarginati, insieme, possono allentare la morsa che schiaccia entrambi, limitandosi a mostrare quello che la società vuole vedere, una facciata falsa, costruita solo al fine di rassicurare parenti e amici sulla loro “normalità”.
E noi lettori, quanto veniamo rassicurati o turbati dalle scelte di Keiko? Perché l’aspetto più interessante che emerge leggendo Murata Sayaka è che costringe chi legge a prendere una posizione suo malgrado. Non si riesce a restare neutrali e in questo sta la sua bravura, perché va a scuotere proprio quelle fondamenta che davamo per scontate, confondendoci.
È difficile a fine lettura poter affermare chi sia veramente normale in questa breve eppure intensa vicenda, ma soprattutto ci si chiede dove ci collochiamo noi rispetto a Keiko.
Ecco, nel mio caso, condividere per qualche giorno l’esistenza di questa donna mite e appagata dentro la sua realtà così prevedibile e controllabile mi ha trasmesso, inaspettatamente, un profondo senso di sollievo. Ci sono stata bene dentro quella dedizione pulita, fine a sé stessa, quella programmazione regolare, senza sbalzi né imprevisti. Non c’è ansia nelle sue giornate, tantomeno dubbi o sfide autoimposte nel perenne bisogno di dimostrare agli altri il proprio valore. Non ci sono asticelle che si spostano sempre di uno scatto più in alto quando il traguardo sembra raggiunto, né farse sociali a cui partecipiamo più per compiacere che per piacere.
Ho provato la stessa genuina soddisfazione di Keiko nel realizzare di aver venduto in un giorno tutti i prodotti in offerta che aveva esposto con cura sullo scaffale. Così come accorrere in cassa, in aiuto di un collega alle prime armi nell’ora di punta o nel riuscire a trovare subito un articolo richiesto da una cliente.
Keiko, ai miei occhi, non è mai stata una disadattata sociale ma piuttosto una dissidente, in grado di scegliere una cosa soltanto da perseguire, semplice e lineare, impegnandosi a svolgerla al meglio delle sue capacità e a lasciar perdere tutto il resto. Tutta l’ambizione degli altri, quella che sentiamo premere sulle nostre coscienze, l’ha barattata con una ripetitività diligente che per lei è tutto fuorché monotona.
Si è calzata un ruolo che la proteggesse da quel vortice là fuori, lo stesso che trascina tutti noi verso vite in continua attesa di altro, dove la fatica fisica si fa mentale, schiacciati dal peso di quelle richieste continue di performare sempre meglio.
Ammetto di aver pensato che mi sarebbe piaciuto provare per un po’ una vita come quella di Keiko. Vedere se fossi davvero stata in grado di non sentire più le voci caotiche e giudicanti del mondo fuori dal mio kombini.
In questo sta tutta la potenza narrativa di Murata Sayaka: portarti a dubitare del tuo “essere normale”, arrivando a desiderare la vita dei suoi stessi reietti.
				
															

