L’Italia che emigra: nuova forma di disuguaglianza?

C’è un’altra Italia nel mondo. Mobile, fluida, ibrida, oltre i confini nazionali, si estende verso l’Europa e oltre. Oggi a vivere all’estero siamo circa 5,5 milioni, ovvero il 9,5% degli oltre 59,2 milioni di italiani residenti in Italia. E’ un fenomeno, quello dell’emigrazione, noto e studiato, che dura da tempo e non si ferma. Qualche cifra: secondo i dati presentanti nel Rapporto Migrante 2021, i cittadini italiani residenti oltre confine negli ultimi sedici anni sono aumentati dell’82%; si tratta di giovani (il 45,5% dei residenti all’estero ha tra i 18 e i 49 anni), giovanissimi (il 15% è un minore) e meno giovani (il 20,3% ha più di 65 anni), celibi o nubili (nel 57,3% dei casi), con famiglie (sono 3.223.486). I “cervelli in fuga” continuano a crescere e rispetto a otto anni fa se ne contano 42% in più. Ma non ci sono solo loro: 3 emigranti su 4 possiedono un titolo medio-basso e oltre il 40% non hanno nemmeno un diploma (dati ISTAT).

Dunque, accanto all’emorragia di giovani laureati, c’è un altro flusso. Riguarda chi lascia l’Italia in cerca di un lavoro generico, un lavoro qualsiasi, un lavoro non specialistico – insomma basta che a fine mese arrivi lo stipendio. Per loro non ci sono agevolazioni fiscali a stare nel Bel Paese…

Da alcune settimane seguo diversi gruppi Facebook di italiani all’estero. Quelli a Zurigo; a Bruxelles; a Londra; a Berlino. Al di là delle numerevoli richieste di camere in affitto e informazioni sulla vita studentesca inviate da giovani prossimi a periodi di studio nelle città europee, si susseguono ben altre diverse richieste. Sono messaggi di aiuto: “ho intenzione di trasferirmi a Bruxelles. C’è qualcuno che offre un lavoro?”; oppure “Cerco un lavoro. Che cosa posso fare a Bruxelles?”; o ancora “Io e la mia ragazza vorremmo partire per la Svizzera. Quali documenti sono necessari e competenze richieste?”.

A catturare la mia attenzione è l’assoluta mancanza di un progetto in questi messaggi. Si lasciano i confini italiani senza sapere bene cosa si cerca come alternativa. Si parte senza un piano di lungo termine, ma con una triste consapevolezza riguardante il presente: andarsene dall’Italia che, per quanto se ne dica, vive tutt’oggi di diffusa precarietà e condizioni di lavoro inaccettabili per molti.

Mi chiedo quale ruolo giochino i social, Facebook in primis, nella decisione di partire pur senza alcuna certezza. Curiosando tra le foto pubbliche di tanti (sconosciuti) italiani all’estero, spesso le città, mete preferite dei migranti, da Londra a Parigi, da Berlino a Bruxelles, sono descritte come luoghi aperti e dinamici, con i loro bei locali, stupendi parchi, ristoranti chic. Ecco allora che quanti “chiedono alla rete” informazioni su dove andare a vivere corrono il rischio (solo in parte inconsapevole) di rimanere assuefatti da narrazioni positive dei luoghi di destinazione. Ma quello che si trova su Facebook e Instagram non è, di frequente, una storia di successo, di famiglie perfette con figli sorridenti, donne e uomini in carriere, nonni felici con ii nipoti, giovani che scherzano e postano selfie mentre si rilassano con un aperitivo dopo il lavoro? Sì, lo sappiamo, ma scegliamo di fermarci a quello che gli occhi ci fanno vedere, ben consapevoli che la realtà è molto più policromatica e fatta di chiari-scuri.

E così, quanto sono realizzabili le aspettative montate ad arte dalla retorica generalizzata del web? Quante sono, invece, le aspettative che si rivelano per lo più deludenti per chi è partito privo di una laurea, senza aver già alle spalle un’esperienza all’estero e senza saper usare (sfruttare, a conti fatti) canali istituzionali di ricerca del lavoro? I gruppi di italiani sui social pullulano non solo di domande di lavoro ma anche di offerte di lavoro dove non sono richiesti particolari titoli di studio: ma occupazioni di questo tipo i migranti con qualifiche medio-basse non avrebbero potuto trovarle anche Italia?

Qualcuno potrà sottolineare che all’estero questi lavori sono esperienze “utili” per poter successivamente migliorare la propria condizione, magari intanto che si apprende la lingua del luogo.

Speriamo sia così davvero e che i Paesi di destinazione non rimangano come un “Eldorado” di opportunità tra i lavoratori con basso titolo di studio. Perché altrimenti l’emigrazione di oggi, lungi dall’essere un fattore di emancipazione e miglioramento, diventerebbe una nuova forma di disuguaglianza.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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