L’ordine divino e la grande menzogna

Forse tutte e tutti in Svizzera hanno visto o sentito parlare del film “Die göttliche Ordnung” (L’ordine divino) diretto da Petra Volpe: racconta la storia di una giovane madre e casalinga, la quale decide di battersi per il diritto di voto alle donne contro il volere del villaggio e contro, quindi, quell’ordine “naturale” (divino) delle cose, che vedeva le mura domestiche quale unico spazio d’azione femminile. Era la fine degli anni Sessanta.

Oggi viviamo in una società che, per fortuna, sta insistendo molto sul fatto che le donne meritino pari opportunità per realizzare i loro talenti in tutte le sfere della vita pubblica e privata. Dunque anche sul piano lavorativo. Eppure rinunciare alla carriera per la famiglia continua a essere più diffuso di quanto si creda.

Ancor meno noto è che la scelta di non perseguire ambizioni professionali viene fatta tanto in nome della cura dei figli quanto per la carriera del marito.

Il costo di essere madre e la scelta di fare la moglie

I dati raccolti da una recente ricerca mostrano la crescita esponenziale del numero di donne con un alto livello di istruzione che lasciano il proprio lavoro: comunemente questa scelta viene legata alle difficoltà di combinare lavoro e genitorialità e carenze strutturali, come la mancanza di asili nido a prezzi accessibili.

La questione è nota, ma lungi dall’essere risolta se, come si legge in un articolo recente apparso sul New York Times, la percentuale della popolazione femminile, che costituisce la forza lavoro degli Stati Uniti, si è livellata dagli anni ’90, dopo essere salita costantemente per mezzo secolo e oggi la percentuale di donne tra i 25 e i 54 anni che lavorano è circa la stessa di quella del 1995. E su scala mondiale, la percentuale delle donne che lavorano è in costante declino negli ultimi dieci anni. I costi e dei tempi che la cura dei figli comporta, così come la mancanza di adeguati aiuti per l’infanzia (anche in termini di asili nido) sono noti motivi che inducono le donne, anche laureate, a rinunciare alla carriera o comunque a lasciare il proprio lavoro.

Ma c’è di più.

Il fatto è che nel discorso pubblico si sottovaluta – anzi talvolta non si prende nemmeno in considerazione – che la decisione da parte di donne istruite ed economicamente affermate di lasciare la carriera per agevolare l’avanzamento di carriera dei loro mariti, il cui lavoro è assolutamente incompatibile con la vita familiare, è molto ben (più) retribuito e meglio si addice alle aspettative sociali di genere.

L’ineguaglianza strutturale maschera quelle che sono percepite come scelte personali; i discorsi pubblici e le rappresentazioni mediatiche della “scelta di essere madre” modellano l’auto-identità delle donne che in realtà non hanno avuto molta scelta che a essere mogli.

Nel suo libro Heading Home, Shani Orgad, professoressa presso il Department of Media and Communications alla London School of Economics and Political Science, racconta questa “altra” storia, la storia di ex avvocate, contabili, insegnanti, artiste, designer, accademiche, assistenti sociali e manager che hanno scelto (e non sempre in modo facile) di fare le mogli e occuparsi della famiglia, dei figli e del marito:

Tanya, precedentemente partner importante di studio legale, ha lasciato la sua carriera per permettere il buon funzionamento della sua famiglia, e soprattutto, ammette, della carriera di suo marito.
Rachel, madre di tre figli ed ex contabile, il cui marito è socio di uno studio di commercialisti, ha confidato che il marito l’ha fortemente incoraggiata a lasciare il suo lavoro per occuparsi a tempo pieno dei bambini.
E quando ho chiesto a Anne, ex manager in un ufficio di Risorse Umane, cosa trovasse più soddisfacente nella sua vita, la prima cosa che ha detto è stata cucinare a suo marito il cibo che lui ama”.

Le parole di queste donne vanno lette, come ricorda Shani Orgad, alla luce delle costanti pratiche sessiste profondamente radicate in vari posti di lavoro e nuclei familiari.

Ma forse ancora più preoccupante è il fatto che oggi, a differenza di ieri, noi donne abbiamo smesso di lottare: mentre le nostre nonne hanno combattuto per il diritto di voto, la patente d’auto e aprire un conto in banca senza dover avere l’approvazione del marito, noi “ci accontentiamo”, in nome della famiglia, di essere ottime insegnanti o pediatre, laureate certo, ma forse non CEO o scienziate di punta – ruoli che lasciamo ai mariti e compagni.

Qualche tempo fa, un’amica mi raccontava, con vanto, della figlia iscritta al primo anno di medicina: “Spero finirà a lavorare in uno studio medico – ha aggiunto – così potrà avere tempo anche per farsi una famiglia, se vorrà.” Ecco, investiamo enormi quantità di denaro e tempo nell’educare le nostre figlie, dotando loro abilità versatili e ribadendo il messaggio che possono essere qualsiasi cosa vogliano essere, poi però (implicitamente) le invitiamo ad essere responsabili e adattarsi alla definizione culturale di femminilità, che vuol dire essere madre e moglie. Non ci accorgiamo della contraddizione?

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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