Ma il ministro non è incinta

“Bella/bello” “maestra maestro” ma anche “direttore/direttrice”

L’edizione 2022 del vocabolario Treccani, presentato ufficialmente il 16 settembre durante la manifestazione Pordenone legge dall’Istituto dell’Enciclopedia italiana, è composto da tre volumi: Dizionario dell’italiano, Storia dell’Italiano per immagini, Dizionario storico etimologico. Il Dizionario dell’italiano Treccani presenta diverse novità fra cui la più rilevante e discussa è quella di non privilegiare, per quanto riguarda i nomi e gli aggettivi, la forma del maschile ma di presentare sempre in rigoroso ordine alfabetico anche la forma del femminile in modo che quest’ultima non sia più una sorta di appendice del maschile. Nonostante qualcuno abbia insinuato il contrario, non si tratta di una “femminilizzazione del linguaggio” ma, come gli esempi sopra dimostrano, di una parificazione nella lemmatizzazione dei due generi nel rispetto rigoroso delle regole morfologiche della lingua italiana.

Inoltre, nelle definizioni e negli esempi si è cercato di evitare il ricorso a stereotipi di genere per cui ad esempio la donna è immancabilmente “all’opre femminili intenta” quali stirare o fare i lavori di casa, mentre l’uomo legge il giornale o ricopre ruoli dirigenziali.

Per quanto riguarda altri stereotipi, rivolti non solo alle donne, se sono radicati nella lingua e quindi risulta impossibile ignorarli, è stata segnalata la loro valenza talora negativa o offensiva della dignità delle persone.

Particolare importanza è stata data dai curatori, Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, alla codificazione di nomi che identificano professioni che spesso non vengono registrati nella forma femminile quali avvocata, architetta, notaia, medica, soldata.

I curatori affermano di non aver perseguito intenti rivoluzionari ma che il loro  dizionario  “ è lo specchio del mondo che cambia  e il frutto della necessità di validare e dare dignità a una nuova visione della società che passa inevitabilmente attraverso un nuovo e diverso utilizzo delle parole”.

Questa impostazione chiarisce implicitamente perché non è stata affrontata ad esempio la questione dell’uso dello schwa o dell’asterisco per cercare di colmare quella che  alcune categorie di persone reputano una lacuna della lingua italiana quando  si tratta di rivolgersi in modo non discriminante   a una persona non binaria o  si fa riferimento a una moltitudine mista o ci si riferisce a una persona di cui non si conosce il genere.

Le innovazioni del dizionario hanno suscitato ampi consensi ma anche significative resistenze che sono emerse a vari livelli.

Si va dalle motivazioni più banali che rimandano a una presunta immutabilità della lingua  (“Si è sempre detto così”)  a forme assortite dell’immancabile benaltrismo o ancora  a valutazioni di tipo estetico sulla presunta cacofonia di alcune forme utilizzate al femminile.

C’è poi chi sostiene, sulla scia dell’illustre linguista Luca Serianni, recentemente scomparso, che la forma maschile usata per indicare le professioni sia una sorta di forma convenzionale mentre la forma del femminile sarebbe “caricaturale” (sic!).

Questo porta talvolta anche alcune donne a rifiutare la forma femminile per definire la loro attività. L’esempio più recente è quello di Maria Sole Ferrieri Caputi, la prima donna a dirigere un incontro di calcio della Serie A italiana, che ha dichiarato di non voler essere definita arbitra in quanto questo sottolineerebbe in modo professionalmente improprio la sua identità femminile.

Vera Gheno obietta a questo proposito che questa utilizzazione del “maschile sovraesteso” non è affatto neutra e innocente ma  che ha invece precise conseguenze, comprovate da autorevoli studi in materia, anche sul piano cognitivo, sia cioè il residuo duro a morire   di una visione androcentrica e patriarcale della società e al tempo stesso contribuisca a perpetrarla. Solo chi si trova in una posizione privilegiata non avverte, in quanto individuo di genere maschile, l’urgenza del problema che è ormai uscito dai circoli specialistici per investire settori relativamente vasti dell’opinione pubblica e questo rende più acceso il dibattito.

La difficoltà di accettare la declinazione al femminile di lemmi che definiscono le varie professioni è dovuta al fatto che esse finora sono state prevalentemente appannaggio degli uomini mentre nessuno trova cacofonico o caricaturale usare forme più usuali come cassiera, infermiera o maestra. A chi si meraviglia di quanto il dibattito su questioni un tempo limitate a  ristretti circoli linguistici e oggi esteso a settori molto più ampi di opinione pubblica risulti così divisivo.  Vera Gheno ribatte che non potrebbe essere altrimenti e  aggiunge: I costumi linguistici hanno una fortissima valenza identitaria, e questo implica che quando si toccano le parole si toccano le persone.”

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