A Nairobi, si mangia la pizza? Esistono i grattacieli? Si dorme in capanne? Girano belve feroci per la città? Qual è la lingua ufficiale e si può parlare di “futuro” per i giovani del posto? Domande e visioni stereotipate, su un paese e un continente, che abbiamo rivolto a un italiano in Kenya da oltre vent’anni. Un viaggio iniziato nel modo più improbabile di sempre… tutto per via di una pizzeria italiana aperta “laggiù”… A tu per tu con Freddie del Curatolo.
Sfornare pizze non è certo tra le idee principali che vengono in mente quando uno pensa a quale lavoro poter andare a fare in Africa, no? E invece sì! Se non fosse stato per il papà che più di quaranta anni fa scelse di trasferirsi in Kenya dove aprì la prima pizzeria con forno a legna, chissà se oggi il giornalista Freddie del Curatolo sarebbe qui, a parlarmi, connesso via Zoom da Nairobi (“in collegamento con il cellulare perché la rete è poco stabile”, mi dice mentre proviamo a connetterci per la seconda volta dopo un tentativo andato a male).
“Era la fine degli anni Ottanta e, mentre ancora studiavo, ho iniziato a venire in Kenya in vacanza. Presto, subito direi, mi sono innamorato dell’Africa. Così ho iniziato a girare prima tutto il Kenya, poi i paesi dell’Africa orientale. Alla fine, di questi luoghi ne ho fatto praticamente una seconda casa” esordisce Freddie, che aggiunge: “limitarsi a scrivere di quel continente (seppur per giornali importanti come nelle redazioni del Corriere della Sera e poi de La Provincia di Como, n.d.r.) non mi bastava. Quando hai vissuto i contrasti e paradossi, ma anche le bellezze e meraviglie dei luoghi africani, nessuna carriera dietro la scrivania, nemmeno il posto fisso, è appagante. Così ho lasciato la mia attività in Italia e ogni sicurezza lavorativa per tornare in Kenya e cercare da qui di fare il mio lavoro: raccontare l’Africa”.
In un articolo dove si racconta un po’ di te, leggiamo: Nel luglio 2005, mentre la sua casa discografica sta organizzando la partecipazione al successivo festival di Sanremo, decide improvvisamente di “scappare a Mombasa” e tornare a vivere nel “suo” Kenya. Freddie, detta così sembra essere stata una scelta “facile”… eppure, arrivato in Kenya per viverci, ti sei mai sentito solo, o magari “estraneo” a quel posto?
Vivere in un paese nuovo non è mai facile. Nel caso del Kenya, una delle sfide principali è stata quella linguistica. Per fortuna, sono riuscito a imparare lo swahili e anche il dialetto giriama, che è lingua comune dei Mijikenda, abbastanza velocemente. Questo mi ha permesso di entrare in sintonia con le persone, di conoscere le storie locali. Da subito ho cercato di integrarmi, di vivere come le persone che mi circondavano, a contatto con loro, imponendomi ad esempio di dormire con loro nelle loro capanne, di mangiare quello che mangiavano loro, di farmi considerare uno di loro anche se palesemente non lo ero e non lo sono nemmeno oggi! Una delle esperienze, che ritengo formative e più belle della mia vita, è stata “seguire” e raccontare per anni l’etnia locale, appunto i Giriama e in particolare gli anziani Giriama, riuniti in un movimento culturale volto a non perdere le loro tradizioni minacciate dalla “civiltà”. Ho vissuto però anche momenti molto critici: dopo i primi tre anni, passati lavorando nel ristorante di mio padre e senza troppi problemi, il continente africano è caduto in un periodo molto burrascoso e pieno di tensioni.
Ti trovavi quindi in Kenya negli anni in cui il paese era sull’orlo della guerra civile?
Sì, quando scoppiarono le terribili violenze post elettorali del 2007-2008, ho vissuto per esperienza diretta quel periodo spartiacque. Il Kenya non era più una “nazione pacifica”. Il risultato fu tragico: più di mille morti, devastazioni a Nairobi e in tutta la Rift Valley, faide e scorribande, chiese bruciate, la polizia che uccideva a caso. Dopo due mesi di guerra civile (senza esercito), non rimaneva che distruzione. Fu un duro colpo anche per l’industria turistica italiana: pochi, pochissimi turisti, alberghi vuoti, nessuno che voleva più viaggiare in Kenya. Malindi, la destinazione turistica di riferimento per gli italiani, che prima della guerra contava migliaia di presenze all’anno, era deserta. Così, in questo contesto, è nato MalindiKenya.net…
MalindiKenya.net … il portale degli italiani in Kenya!
Riconosciuto, tra gli altri, anche dal Municipal Council of Malindi, dal Ministero del Turismo Kilifi County e dal Co.Mi.Tes. Kenya, il sito è diventato in pochi anni il punto di riferimento per gli italiani che vivono e lavorano in Kenya, ma anche per coloro che desiderano conoscere il paese, per turismo o per affari.
Oltre a essere il responsabile dei contenuti del sito MalindiKenya.net, sei corrispondente dall’Africa orientale per diversi media, tra i quali ricordo l’Ansa. Nel tuo lavoro da giornalista, quanto spesso ti capita di dover controbattere alla narrativa popolare che ritrae l’Africa e la sua gente come un grande paese, povero, carente di cultura, di mezzi e di capacità, e per certi versi tribale?
Per poter controbattere un argomento, è essenziale conoscerlo a fondo. Posso affermare che, avendo vissuto e continuando a vivere a stretto contatto con la popolazione locale, uno degli aspetti che ritengo fondamentale evidenziare è la difficoltà che questa – la popolazione locale – affronta nel conciliare le proprie antiche tradizioni con la modernità e con il passato coloniale più recente. Basti pensare all’animismo, messo a confronto con le religioni imposte successivamente in queste terre, come il cattolicesimo e l’islam. Un altro esempio riguarda pratiche come la circoncisione e l’infibulazione, che non appartengono alle tribù costiere, ma che ho avuto modo di approfondire in Kenya, nelle terre Masai e Samburu. Prima di formulare qualsiasi considerazione, è imprescindibile comprendere quanto sia complesso, per le popolazioni di questo continente, convivere con tali pratiche e con altre tradizioni legate, ad esempio, al concetto di cura basato sull’uso di erbe e alimenti naturali. Per questo motivo, è assolutamente necessario superare stereotipi, logiche preconfezionate e narrazioni semplicistiche che spesso si costruiscono sull’Africa.
Questo è anche quello che ti proponi di fare nel libro Nairobi, con la fotografa Maddalena Stefanelli, in arte Leni Frau, giusto?
Sì, abbiamo voluto accompagnare il lettore e la lettrice attraverso i quartieri postcoloniali e i bassifondi di Nairobi, dove si trovano grattacieli e savana praticamente gli uni accanto agli altri, dove la tutela ambientale si intreccia con la lotta per la sopravvivenza degli abitanti, il riciclo dei rifiuti e gli animali selvaggi ormai urbanizzati. Grazie anche alle foto presenti nel libro il nostro intento era dare concretezza agli odori, sapori, colori e materiali che plasmano la capitale del Kenya. Abbiamo anche incluso racconti di aneddoti ed eventi che hanno segnato, ad esempio, la nascita di uno snodo commerciale in continua evoluzione, dando voce al crogiolo di comunità eterogenee che vivono nella città e cercando di smontare ogni fascinazione esotica stereotipata sul Kenya.
Quanto incidono gli stereotipi “occidentali” sulle persone africane stesse? Hai avuto modo di cogliere come il nostro sguardo li influenza?
Difficile rispondere a questa domanda. Sottolineerei cosa “non va” nel nostro sguardo. Cerco di farlo con una riflessione che prendo in prestito da un grande reporter sul campo, che per me è stato uno dei primi maestri d’Africa, il polacco Ryszard Kapuściński. Egli visse in Africa tanti anni e poté raccontare il continente negli anni in cui i paesi africani raggiungevano l’indipendenza. Nel suo libro Ebano (edito nel 1998), Ryszard Kapuściński scriveva che l’Africa è un insieme talmente eterogeneo e diverso di popoli, di usi e costumi che solo noi per convenzione possiamo chiamarla Africa. E questo è quello che vivono gli stessi africani. Cosa hanno in comune un nigeriano, un etiope, un eritreo, o un angolano? Non si può dire nemmeno “il colonialismo”, dal momento che il modello coloniale francese, fu ben diverso da quello imposto dagli inglesi, dai portoghesi o dai tedeschi. Recentemente, poi, parliamo di neocolonialismo cinese – che è, di nuovo, un nuovo modello di imporre sovrastrutture a popolazioni diverse. Oggi in Africa, ogni nazione, popolo ed etnia conserva le proprie differenze, influenzate anche dalla conformazione geografica e dalla geopolitica di ciascun paese. Quindi il primo errore fondamentale è proprio parlare, indiscriminatamente, di Africa, senza considerare le unicità e particolarità di paesi che sono, appunto, completamente diversi tra di loro e che hanno anche delle problematiche assai diverse. C’è un altro bel libro su questo tema. È scritto da Dipo Faloyin e si intitola proprio Africa is not a country (tradotto in italiano da Altrecose, “L’Africa non è un paese”).
… ed è un libro illuminante, quello di Dipo Faloyin, perché ci mostra davvero le diverse sfaccettature del continente africano, anche ad esempio quelle culinarie e legate al linguaggio. Parlano di lingua, quando sono importanti i dialetti locali? Prima hai già ricordato come tu stesso ne hai imparati alcuni…
I dialetti, le lingue locali rivestono un ruolo importantissimo. La lingua in cui un africano pensa per primo è quella della sua comunità, del suo villaggio, dei suoi padri. Sai che ci sono addirittura parole che non si possono neanche tradurre da certi dialetti? Come non ricordare, poi, uno dei più grandi scrittori keniani, Ngugi Wa Thiong’o, tre finalista per il premio Nobel della letteratura? Oppositore dei regimi post-coloniali, specialmente del regime del secondo presidente Arap Moi, Ngugi Wa Thiong’o ha scritto quasi tutti i suoi libri in lingua kikuyu, che è un dialetto del Kenya. Addirittura uno di questi libri in kikuyu lo ha scritto durante la detenzione in prigionia, sui rotoli di carta igienica. Certo il caso del Kenya è “speciale” e in altri contesti africani ai dialetti è preferita la lingua nazionale. Penso a Abdulrazak Gurnah, scrittore tanzaniano naturalizzato britannico e vincitore nel 2021 del Premio Nobel per la letteratura: Gurnah scrive in Swahili e poi traduce in inglese.
Rimaniamo sul Kenya: hai ricordato le tradizioni contrastanti che lo caratterizzano, le tensioni tra gruppi tribali, le divisioni linguistiche (i dialetti). Che futuro si prospetta in questo paese?
Senza dubbio, il Kenya è certo un paese che, sulla carta, ha le più alte potenzialità che si possono vedere in Africa e soprattutto nella fascia sub-sahariana del continente. Il Kenya possiede un grande potenziale, frutto di un percorso di industrializzazione avviato già negli anni Sessanta e della formazione di una classe dirigente capace di operare in contesti multinazionali. Grazie alle sue risorse naturali e alla sua posizione strategica, è stato il primo paese africano a rivolgere lo sguardo all’Occidente, instaurando rapporti privilegiati con Stati Uniti, Regno Unito e, successivamente, con l’Unione Europea. Proprio per queste ragioni, è stato riconosciuto come uno dei partner fondamentali in Africa, distinguendosi come hub di riferimento per investimenti e sviluppo. Le risorse del territorio e del sottosuolo hanno contribuito ulteriormente a renderlo un punto di interesse strategico. Il Kenya si presenta inoltre come uno stato stabile e sicuro in un contesto regionale segnato da conflitti e insicurezze. Basti pensare al genocidio in Ruanda, alla complessa situazione della Repubblica Democratica del Congo o alla lunga guerra tra Etiopia ed Eritrea. In questo scenario, il Kenya funge da stato cuscinetto. Non sorprende quindi la presenza di una rilevante base militare britannica e di installazioni della NATO.
Il Kenya è anche un paese giovanissimo…
Sì, il 78% della popolazione ha meno di 35 anni. Questa caratteristica ha favorito una rapida adozione delle nuove tecnologie, superando in agilità paesi europei come l’Italia. Questo dinamismo, tra l’altro, ha attratto colossi tecnologici come Apple e Microsoft, che hanno assunto centinaia di freelance locali. Anche Meta, l’azienda di Mark Zuckerberg, ha investito nel paese, sebbene coinvolta in controversie legate allo sfruttamento dei lavoratori. Molte applicazioni diffuse a livello globale hanno origine da idee sviluppate proprio da giovani keniani, confermando il Kenya non solo come paese giovane, ma anche come centro di innovazione e sviluppo tecnologico. Il ruolo del Kenya nel panorama globale è destinato a crescere, soprattutto in un mondo sempre più orientato verso l’intelligenza artificiale e la tecnologia. E a dimostrazione della sua influenza emergente, il Kenya ha avuto un ruolo determinante nell’integrazione dell’Unione Africana nel G20.
Credi che dunque il Kenya possa imponendosi come guida e rappresentante dell’intero continente all’interno di questo importante forum internazionale?
Purtroppo, il Kenya si trova ad affrontare ostacoli significativi che gli impediscono di emergere come una nazione pienamente allineata ai grandi attori globali. A differenza di paesi come India, Brasile e Sudafrica, che si stanno affermando sulla scena internazionale e si sono uniti, ad esempio, nel gruppo dei BRICS e nel dibattito contro il dollaro, il Kenya è frenato da barriere sostanziali. Uno dei principali ostacoli è la corruzione. Non si tratta solo di una corruzione diffusa ai vertici del potere, come accade in molte altre nazioni, ma di un fenomeno così profondamente radicato da influenzare la vita quotidiana dei cittadini. Questo mina la fiducia della popolazione nello sviluppo del paese, percepito come un processo destinato ad arricchire solo una ristretta élite. Un altro limite rilevante è rappresentato dal tribalismo, di cui ho parlato prima. In Kenya le principali lobby si organizzano lungo linee tribali, il che frammenta ulteriormente il tessuto politico ed economico.
Insomma, Kenya è un paese con enormi potenzialità, ma al tempo stesso gravato da freni strutturali che ne ostacolano la piena realizzazione. Possono servire gli aiuti internazionali allo sviluppo? Li cito anche a fronte della sospensione recente degli aiuti americani decisa dal presidente Trump…
Uno dei pilastri fondamentali del pensiero che esprimono quotidianamente, in particolare scrivendo su malindikenia.net, è la critica alla cosiddetta solidarietà da caramelle. Questo concetto, come sottolinea il grande filosofo camerunense Achille Mbembe, trae origine dal cliché e dall’immaginario europeo legati a due aspetti principali: da un lato, il senso di colpa per i trascorsi coloniali; dall’altro, la paura verso i popoli africani, che si manifesta soprattutto come timore di un’invasione. Se si parte da questi presupposti, non si riuscirà mai a realizzare un aiuto autentico, diretto e privo di sovrastrutture. Questo perché, agendo in tal modo, non si comprenderanno mai i reali bisogni delle persone. Dal mio osservatorio qui, posso dire che, anche quando l’aiuto arriva, viene spesso percepito come un modo per alleggerire la coscienza sporca di chi lo offre o per “tenere buono” un popolo, prevenendo possibili richieste o invasioni. Questo rappresenta il primo grande errore di molte organizzazioni che non vivono abbastanza a stretto contatto con l’Africa. L’idea di “aiutiamoli a casa loro”, per quanto corretta in linea teorica, si scontra con il vero nodo della questione: come farlo. Perché si tratta di un impegno complesso, che richiede tempo, energie e risorse, ancor prima di avviare qualsiasi progetto. Significa stabilirsi, osservare, comprendere i bisogni reali e, soprattutto, favorire uno sviluppo che permetta alle comunità locali di diventare autonome. Solo quando le persone riescono a comprendere profondamente di cosa hanno bisogno e a realizzarlo in modo indipendente, si ottengono risultati duraturi. In quest’ottica, devo ammettere che, almeno teoricamente, la revisione della cooperazione italiana per l’Africa, attraverso il cosiddetto Piano Mattei, sembra essere stata concepita nella direzione giusta. Si percepisce che chi ha elaborato il progetto possiede una conoscenza, seppur minima, delle esigenze di alcuni paesi africani. Tuttavia, trasformare queste idee in realtà è un’altra storia. Bisogna superare ostacoli come la burocrazia e le dinamiche di potere che si instaurano quando l’aiuto passa da paese a paese o da organizzazione a organizzazione.
E qui si apre un tema cruciale, che meriterebbe un approfondimento a se stante, ovvero l’approccio adottato da attori internazionali come Cina, Turchia e Russia nei confronti del Kenya e dell’Africa in generale. Ma intanto si sono fatte le 12 a Bruxelles, le 14 a Nairobi. La connessione inizia a cedere. Saluto Freddie del Curatolo. A presto…