Morire per scrivere

Il 27 giugno è stato bombardato un famoso e affollato ristorante a Kramatorsk. Tra le 12 vittime c’era anche Victoria Amelina, scrittrice e poetessa ucraina, di 37 anni, che si trovava all’interno del locale con una delegazione di giornalisti e scrittori colombiani. 

Una delle voci più promettenti della nuova letteratura ucraina, pluripremiata e riconosciuta a livello internazionale, Victoria Amelina era membro di PEN Ukraine, un’organizzazione non governativa, parte della rete dell’International PEN, istituita per proteggere la libertà di parola e i diritti degli autori.

Da mesi si occupava solo più di documentare i crimini di guerra russi, con l’iniziativa per i diritti umani Truth Hounds nelle aree orientali, meridionali e settentrionali dell’Ucraina. 

È stata una scelta. Faceva parte di quella ristretta categoria di privilegiati che avrebbe potuto beneficiare del suo lavoro e talento per mettersi in salvo. Aveva vinto una borsa di studio per scrivere a Parigi per un anno. Avrebbe potuto continuare a raccontare del suo paese da una distanza e da una prospettiva che non le avrebbero tolto credibilità. Aveva un figlio piccolo che si sarebbe portata con sé. Ma ha deciso di posticipare la partenza e restare nella sua amata Ucraina a fare ciò che sentiva giusto: usare le sue parole come arma di opposizione e resistenza civile. 

“Siamo, si può dire, ossessionati dalla nostra libertà, e siamo pronti a morire per essa. I russi non possono perdonarci per questo”, aveva scritto in un articolo sette mesi fa, “C’è il rischio concreto che i russi riescano ad annientare un’altra generazione di cultura ucraina, questa volta con missili e bombe”.

Nata a Leopoli nel 1986, aveva trascorso l’infanzia in Canada con il padre, per poi tornare in Ucraina per completare i suoi studi. Oltre alla sua promettente carriera letteraria, (aveva ricevuto il Joseph Conrad Literary Prize nel 2021 ed era in lizza per lo European Union Prize for Literature), era responsabile e organizzatrice di vari festival letterari. 

Uno su tutti, quello che ora assume anche un valore altamente simbolico, è il festival letterario di New York, nel Donetsk. Una bizzarra ma fortunata omonimia attraverso la quale Victoria Amelina ha potuto esprimere, anche con una notevole dose di ironia, il singolare spirito con cui riusciva a conciliare arte e politica. 

“Quando ho fondato il festival della letteratura di New York in un piccolo villaggio chiamato New York nel Dombass, ovviamente ero ironica. Dopotutto l’ironia è ciò che rende grande la letteratura. L’autoironia ha reso il villaggio di New York un posto fantastico. Gli ucraini sopravviveranno, rideranno e faranno festival di letteratura, non guerre – in tutte le New York possibili. Prometto”.

Nel suo pericoloso viaggio di documentazione aveva trovato il diario di Voldymyr Vakulenko, scrittore catturato e ucciso dalle forze russe nella città di Izium. Era stato lo stesso scrittore a indicare ad Amelina dove trovarlo: sotterrato nel suo giardino. Fra quelle pagine un resoconto puntuale delle atrocità della guerra. Ne è uscito un volume, presentato proprio nei giorni scorsi al Festival del libro di Kiev. 

La sua morte si intreccia a quella di molte altre intellettuali e scrittori che hanno accettato la pericolosa seppur logica definizione della letteratura come atto prima di tutto politico. L’invasione armata di un paese verso un altro non distrugge soltanto abitazioni, monumenti e vite, ma scava alla base per estirpare attraverso la propaganda le fondamenta culturali di un popolo. La stessa cosa avviene nei regimi autoritari verso chiunque attui un’opposizione, soprattutto se questa avviene attraverso l’atto di scrivere. Penso tra tutte alla giornalista russa Anna Politkowskaja. 

Una scrittrice ucraina e una giornalista russa, morte assassinate per la stessa causa: la libertà di parola.

Il mestiere di scrivere, appare in contesti di pace e stabilità politica e sociale, come uno status privilegiato, di intellettuali che possono permettersi di vivere raccontando storie. Il problema sussiste nel momento in cui la situazione cambia e le scrittrici e gli scrittori si trovano nella condizione difficile di dover scegliere come usare quelle parole. 

Michela Murgia ha dichiarato in una intervista che tutto ciò che si scrive si schiera, inevitabilmente. La letteratura non può sottrarsi a scegliere da che parte stare, mai. 

Ed è allora che un lavoro apparentemente frivolo, del resto con la cultura non si mangia, aveva dichiarato qualcuno anni fa, un atto di evasione e pura fantasia, viene chiamato a combattere attivamente, documentando la realtà.

Si continua a morire sui vari fronti in questa guerra estenuante e piena di atrocità, e si muore anche imbracciando parole, scegliendo di restare e continuare a fare l’unica cosa di cui si è capaci: scrivere. 

Seguici

Cerca nel blog

Cerca

Chi siamo

Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

Ultimi post