Di Alessandra Marconi, docente di Italiano per Stranieri
Il “Senso delle Stelle” è l’ultimo romanzo di Antonio Lorenzo Falbo, scrittore, docente di storia dell’arte, videomaker. Abbiamo parlato con l’autore di arte, psicologia e violenza, che “è come un’ombra: se la ignoriamo, si allunga e ci inghiotte. Solo prendendone coscienza possiamo imparare a controllarla e a prevenirla”.
Antonio, partirei proprio dalla tua esperienza legata all’Arte, per chiederti se riesci a portare qualcosa di “quel mondo” anche dei tuoi libri…
Allora, questa è una domanda molto particolare. Non so se riesco a portare l’arte nei miei libri. Però sicuramente avviene l’inverso, ovvero ciò che si sviluppa all’interno di un modulo di lezione, umanamente con gli studenti e le studentesse, influenza me come autore.
Il Senso delle Stelle, romanzo che potremmo definire anche un thriller psicologico, è ricco di descrizioni e aspetti poetici come similitudini e metafore: in questa parte paesaggistica, ti rifai ad alcuni autori in particolare?
Direi che sono immagini che fanno parte della mia esistenza, quindi soprattutto quelle “agresti” riguardano la mia biografia e i posti di campagna nell’Alta Langa: sono praticamente cresciuto in una realtà contadina, ancora legata quindi a usi, costumi e talvolta anche credenze direi veramente ancestrali. Quanto a influenze letterarie, riguardano Cesare Pavese, soprattutto appunto per questo rapporto tra uomo e natura molto drammatico. La storia dell’arte mi porta poi a dare un simbolo a quelle immagini, forse anche lo scorcio di una pianta, di un albero… Penso soprattutto al simbolismo pittorico, ad esempio di Redon: ciò che è un semplice fotogramma, in verità, è sedimentato nella memoria, ma soprattutto è legato all’adolescenza, all’infanzia. Cerco di farlo diventare, questo fotogramma, un veicolo più vasto che trascina con sé numerose altre suggestioni o che possa evocare appunto anche sensazioni e riflessioni ulteriori.
Qual è il tuo rapporto con i personaggi dei tuoi libri?
Creare i miei personaggi è un processo complesso. Sono un po’ come dei ritratti di me stesso, delle mie aspirazioni e delle mie paure. Parto sempre da un’idea molto vaga, come un pittore che sceglie una tavolozza di colori. Poi, man mano che scrivo, i personaggi prendono vita propria, sorprendendomi spesso con le loro azioni. È come se li conoscessi sempre meglio, capitolo dopo capitolo. Inizialmente, mi basavo molto sulle persone che mi circondano per dare un volto ai miei personaggi. Ma ho scoperto che è più divertente farli agire in modo inaspettato, lontano dagli stereotipi. Ultimamente, ho iniziato a lavorare su un nuovo progetto, partendo da personaggi che avevo già creato in racconti brevi. Questo mi permette di conoscerli ancora meglio e di costruire storie più complesse.
Il tuo romanzo “Il Senso delle Stelle” prende il via dalla psicogenealogica di Aleandro Jodorowsky. Ce ne vuoi parlare?
Il mio interesse per la psicogenealogia è nato intorno al 2008, grazie all’influenza di un allievo di Jodorowsky. Questa disciplina mi ha affascinato per la sua capacità di collegare le esperienze passate delle nostre famiglie alle nostre attuali emozioni e comportamenti. L’idea che i traumi e le aspettative possano essere trasmessi di generazione in generazione, quasi come un patrimonio genetico, mi ha offerto un nuovo modo di interpretare la complessità dell’animo umano. Pur non essendo uno psicologo, ho sempre sentito una forte affinità per questi temi. La psicogenealogia mi ha permesso di esplorare aspetti più misteriosi della psiche, come l’inconscio e il legame con gli antenati, e di integrarli nelle mie narrazioni. Mi affascina l’idea di poter dare voce a queste memorie ancestrali, di svelare i segreti che si celano dietro i nostri comportamenti. Insomma, la psicogenealogia mi ha permesso di coniugare la mia passione per la scrittura con un profondo interesse per la psicologia e la spiritualità.
Ogni capitolo è un mondo a sé, con un suo stile e una sua storia, con i generi diversi e il lettore o la lettrice non si annoiano! È come se ogni capitolo fosse una piccola sfida creativa…
Il mio background professionale e la mia passione per la letteratura e il cinema contemporanei si fondono nelle mie storie, creando un cocktail di generi e atmosfere. In questa particolare narrazione, ad esempio, ho voluto catturare il fascino dell’avventura e della scoperta, tipico dei romanzi di formazione. Direi che prendo ispirazione da classici come ‘Il Signore delle Mosche’ e ‘Stand By Me’, creando un’atmosfera sospesa tra infanzia e adolescenza, dove il mistero e la crescita personale si intrecciano.
L’incertezza è il motore che guida la storia, capitolo dopo capitolo. I personaggi si evolvono, alcuni verso la redenzione, altri verso l’abisso. Questa commistione di generi crea un’atmosfera ricca e complessa, dove l’esplosione di violenza improvvisa e brutale fa da contrappunto all’introspezione psicologica. Questa scelta narrativa riflette la realtà contemporanea, dove la violenza è purtroppo sempre più presente. Mi chiedo se per te questa violenza sia solo un elemento narrativo o se rappresenti anche un modo per scuotere il lettore, per invitarlo a riflettere sulla condizione umana.
Questa è una bella domanda. Allora, personalmente non credo che la violenza o la brutalità sia necessaria nella letteratura come nel cinema per poter esprimere qualcosa. Penso che sia una scelta piuttosto obbligata dal tipo, dalla storia e dai caratteri, dei personaggi che la vivono. In altra istanza, più che una denuncia, è qualcosa che abbiamo dentro e da lettore mi chiedo come ci si possa sentire, diciamo, urtati dalla descrizione violenta di alcune scene del libro e non da ciò che si vede eventualmente facendosi semplicemente un giro per la strada tutti i giorni. Credo che, parlando in termini più antropologici o sociali, il problema dell’odierno risiede nel fatto di volerla camuffare, questa violenza, nascondendola, celandola sotto una patina, cercando di non accettarla; come dire, la vivi, c’è, ma allo stesso tempo non è vera. Forse andrebbe, allora, esposta di più. Non dico sdoganata, non è quello il mio intento. La letteratura, come uno specchio, riflette la realtà che ci circonda, comprese le sue ombre più scure. Rappresentare la violenza, anche nella sua crudezza, non significa celebrarla, ma piuttosto analizzarla e comprenderla. In sostanza, credo che riconoscere e accettare la presenza della violenza nella nostra società sia il primo passo per poterla gestire. Negandola o minimizzandola, rischiamo di amplificarne gli effetti. È come un’ombra: se la ignoriamo, si allunga e ci inghiotte. Solo prendendone coscienza possiamo imparare a controllarla e a prevenirla.