Oltre il piatto: la politica della produzione alimentare

Intervista di Valeria Camia e Alessandro Vaccari con Mauro Balboni

Negli ultimi decenni, il tema della produzione alimentare globale è diventato sempre più rilevante, specialmente in relazione alla crescita demografica e alle crescenti sfide ambientali. Siamo così confrontati con domande cruciali sul futuro della sicurezza alimentare e sulla sostenibilità del nostro sistema produttivo. Noi di “Sconfinamenti” abbiamo più volte approfondito questo argomento, perché pensiamo che la questione non si possa rimandare. Oggi torniamo a parlarne con un ospite impegnato in una battaglia che tocca le prospettive legate a come garantire cibo a tutti senza danneggiare ulteriormente il pianeta: Mauro Balboni.

Mauro, iniziamo con un quadro della situazione attuale della produzione di cibo in rapporto, proprio, ai problemi di crescita della popolazione.

La situazione è quella che era apparsa già chiara da diversi anni, sono andato appunto ieri sul sito della FAO per vedere se ci fosse qualcosa di diverso e non ho trovato cambiamenti: la domanda di cibo a livello mondiale cresce in continuazione e continuerà a crescere per tutto il secolo per due motivi. Anzitutto perché al mondo c’è sempre più gente; anche se la crescita della popolazione umana sta rallentando, ogni anno si aggiungono sempre comunque oltre 70 milioni di bocche da sfamare. Inoltre ogni anno, sempre secondo i dati delle Nazioni Unite, circa 120 milioni di persone si aggiungono alla cosiddetta global middle class, la classe media globale o classe dei consumatori globali, alla quale apparteniamo già noi tutti, e questi sono 120 milioni di persone, soprattutto in Asia, ma in maniera crescente anche in Africa. Sono persone che si stanno mettendo a consumare e quindi a mangiare esattamente come noi, sia come quantità che come qualità, nel senso della bassa qualità della nostra alimentazione, che dal punto di vista ambientale è basata su un consumo di risorse che non è sempre sostenibile.

Gli stock alimentari sono più o meno stabili, cioè praticamente quello che viene prodotto e che poi resta per l’anno dopo, si mantiene più o meno stabile. Gli stock sono circa 800 milioni di tonnellate di cereali su una domanda mondiale che è di quasi 2 miliardi e 900 milioni, quindi poco meno di 3 miliardi. Vuol dire che se paradossalmente da un anno all’altro il mondo non producesse niente, gli stock alimentari sarebbero sufficienti fino a maggio dell’anno dopo.

Qual è il ruolo di questi cambiamenti climatici che sono e non sono sotto gli occhi di tutti?

Sulla relazione tra cambiamento climatico e sicurezza alimentare non c’è purtroppo una risposta univoca, semplice, chiara. Intanto bisogna vedere l’impatto dei cambiamenti sulle diverse colture e sulle diverse aree geografiche. Ci sono alcune colture, alcuni tipi di piante come il frumento e il riso , che in qualche modo beneficiano dell’aumento della CO2 nell’atmosfera. Perché la CO2 oltre che essere responsabile dell’aumento dell’effetto serra, è anche l’elemento che le piante usano per la cosiddetta fotosintesi, quindi indispensabile per la crescita delle piante, entro certi limiti. Sono tutti studi fatti su modelli e quindi devono essere poi verificati nel corso dei prossimi anni. Per altre colture come la soia il mais la situazione produttiva può essere più problematica

Senza arrivare poi ai casi di siccità estrema, che sono quelli che hanno risalto sui media, c’è la cosiddetta siccità agroecologica che è il contenuto d’acqua presente nel terreno in cui le piante, le culture crescono. Quindi si abbassano le produzioni anche senza arrivare a fenomeni di siccità estrema. Mettendo assieme tutto questo, i modelli dicono che per il riso e per il frumento non ci dovrebbero essere grossissimi problemi, se le temperature ovviamente rimangono entro un aumento accettabile. Per la soia per esempio le cose sono un po’ più negative. Per i mais, che è una delle grandi colture su cui si basa l’alimentazione mondiale, è prevedibile una diminuzione significativa delle rese nel corso dei prossimi decenni. Il mais entra in una quantità di usi, sia alimentari che non alimentari.

Vedendo il problema dei cambiamenti climatici anche dal punto di vista geografico, Russia e Canada, che sono già oggi tra i maggiori produttori ed esportatori mondiali di frumento, beneficeranno di un aumento delle temperature che permetterà loro di spostare le grandi aree di coltivazione di frumento sempre più verso nord. Il bacino del Mediterraneo, Europa meridionale e Africa settentrionale, è un cosiddetto hotspot del cambiamento climatico perché c’è una concentrazione tale di fenomeni negativi che andranno ad avere anche un impatto su quello che coltiveremo e quanto ne coltiveremo. Quindi bisognerebbe già cominciare attorno al bacino del Mediterraneo a lavorare sull’adattamento delle filiere alimentari al cambiamento climatico, che in questo caso significa prevalentemente che farà più caldo e l’acqua a disposizione sarà meno.

Le università sono piene di ottime idee, di ottimi progetti, di ottimi studenti, di ottimi dottorandi. Quello che manca in Europa, che invece in America c'è molto di più, è la connessione  tra il mondo della ricerca e quello della produzione. 

Quindi possiamo affermare che la sfida del futuro è riuscire ad assicurare la sicurezza alimentare a tutti gli esseri umani senza distruggere l’equilibrio ambientale?

In Italia e in Europa si è verificato nei decenni passati un abbandono rurale su vasta scala e un ritorno del bosco, però purtroppo la distruzione delle foreste continua nei sud del mondo a carico delle foreste tropicali che sono esattamente invece quei baluardi della biodiversità e dell’assorbimento, dello stoccaggio del carbonio che dovremmo invece preservare; purtroppo non c’è ancora una soluzione a questo. L’intensificazione della produzione agricola può essere una risposta, sta avvenendo lentamente però bisogna vedere che sia intensificazione sostenibile, nel senso che non adotti nei paesi emergenti gli stessi sistemi che sono stati usati storicamente nel mondo economicamente più sviluppato. Penso per esempio all’eccesso di azoto e di fosforo che vengono riversati attraverso le fertilizzazioni sulle colture, che poi immancabilmente finiscono nelle acque. Siamo davanti a delle sfide enormi per le quali non abbiamo ancora tutte le risposte. L’appropriazione di sempre nuova terra per far posto a colture e a pascoli è quello che è sempre avvenuto nella storia umana, da quando abbiamo cominciato a alimentarci in questo modo, è rallentata rispetto ai decenni fra il 1900 e il 1960, però non è finita. 

L’altro nodo grosso è che una produzione di cibo adeguata sia poi distribuita in modo equo, e questo riguarda soprattutto la politica.

Questo è un altro dei problemi che non riusciamo risolvere in modo definitivo finale; sono andato a rivedere ieri le cifre della FAO, e devo dire che da quando ho cominciato a interessarmi di queste cose, andando all’università, nel 1978, la situazione della cosiddetta sicurezza alimentare è migliorata; allora un essere umano su quattro , versava in quella che oggi viene definita insicurezza alimentare, non aveva cioè sostanzialmente abbastanza da mangiare. Oggi siamo a uno su undici, proporzionalmente le cose stanno migliorando, il grosso del miglioramento è avvenuto perché la Cina, dove la gente fino agli anni sessanta moriva fisicamente di fame, negli ultimi 20-30 anni, sia pure attraverso politiche talvolta discutibili, ha praticamente eliminato la sottonutrizione. Immaginiamo quindi quante centinaia di milioni di esseri umani che mangiavano troppo poco prima, mangiano adesso a sufficienza e in alcuni casi anche troppo. Ecco, quindi sta andando meglio, però purtroppo siamo ancora a una cifra sui 650-700 milioni di esseri umani che non arrivano alla soglia delle calorie giornaliere minime, con tutto poi il bagaglio di malattie infantili a questo correlato; infatti centinaia di migliaia di bambini muoiono ogni anno nel mondo, anche perché non hanno un accesso ad un’alimentazione sufficiente e sana.

Nell'anno 2000 con i Millennium Development Goals le Nazioni Unite dicevano che per il 2015 avremmo dovuto essere al di sotto dei 500 milioni di persone sottoalimentate ma nel  2024 sono ancora quasi 700 milioni, quindi non ci siamo. La distribuzione equa non c’è.

Lei in diversi suoi scritti ha sostenuto una posizione molto forte, ovvero che i comportamenti a livello individuale, quindi i nostri comportamenti rispetto al cibo, incidono in modo insignificante sull’ impatto ambientale e sulla produzione di cibo. Non crede quindi che un comportamento “virtuoso” in materia quali la rinuncia totale o parziale al consumo di carne e di alimenti di origine animale possa favorire in molti la presa di coscienza del problema?

Innanzitutto la consapevolezza a livello individuale è importantissima, quindi è fondamentale che ognuno di noi si informi e che cerchi di fare la sua parte. Io faccio la mia, fra l’altro la carne non mi è mai piaciuta troppo, quindi non ho mai avuto molta difficoltà a consumarne pochissima. Se il mondo ne consumasse quanto me, non saremmo qui a parlare di questo. È necessario però che le nostre azioni arrivino ad essere recepite a livello di sfera politica, perché è là dove si legifera che si può fare veramente la differenza. Purtroppo, il settore e il business della produzione delle proteine animali è fortissimo e ha delle entrature a livello politico fortissime. Avete visto sicuramente anche le reazioni in Italia del Ministro d’Agricoltura e di organizzazioni del settore, non appena si è parlato di fare sperimentazione su proteine prodotte in maniera innovativa, anche se nessuno costringerà i consumatori a mangiarle. Le reazioni sono state subito estremamente difensive.

Io credo che sia importantissimo continuare a fare informazione corretta su questi temi. L’impatto climatico e ambientale della produzione di proteine animali sulle risorse è innegabile, anche se a volte si sentono un po’ di esagerazioni in proposito tipo: “Smettete di mangiare bistecche e il clima sarà salvato” Non è ovviamente così facile, però l’impatto della produzione di carne sull’ambiente è chiaro ed evidente.

E non mi pare che ci si avvii a risolvere il problema in tempi brevi. Sulle proteine prodotte in maniere non tradizionali, culturalmente non ci siamo ancora; le reazioni peraltro veramente scomposte secondo me del Ministro in Italia, della Coldiretti, non possono chiudere lo spazio all’innovazione, soprattutto quando l’innovazione in questo caso rappresenterebbe (il condizionale è d’obbligo) r un chiaro beneficio. Poi tra l’altro queste sarebbero tutte cose che dovrebbero passare attraverso la legislazione europea chiamata Novel Food, quindi non è che i prodotti innovativi si potrebbero immettere sul mercato senza una valutazione del loro impatto sulla salute dei consumatori.

È un problema anche di cultura e di orientamento dell’opinione pubblica… E su questo, noi di Sconfinamenti torneremo…

ASCOLTA L’INTERVISTA INTEGRALE QUI

PER GUARDARE L’INTERVISTA INTEGRALE QUI

Seguici

Cerca nel blog

Cerca

Chi siamo

Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

Ultimi post

Anagrafe italiana residenti estero

L’Anagrafe italiana residenti estero (AI.R.E.)  istituita nel 1988 registra tutti gli italiani e le italiane residenti stabilmente all’estero per un periodo superiore a un anno, con

Leggi Tutto »