“Pane e tulipani”: un film per chi sta scappando

“Dio che triste ‘sta tappezzeria… ma perché non la cambi?” esclama la verace proiezione notturna della suocera della casalinga Rosalba, nella stanza di un vecchio alberghetto prossimo al fallimento in quel di Venezia. “Ma io qui sono solo di passaggio…” risponde attonita la protagonista, “E chi non lo è, tesoro?”, conclude canzonatoria quell’altra.

Se ci fosse una commedia estiva, esistenziale, lontanissima dalle caratterizzazioni tipiche della commedia all’italiana, un pizzico “francesizzante” e “sulla fuga” che consiglierei, sarebbe proprio Pane e tulipani, film di Silvio Soldini del 2000, uno dei miei preferiti, che ebbe un successo di critica in Europa, ma fu poco considerato dal pubblico italiano poiché distante dal cinema nazionale più popolare.

Rosalba (l’attrice, mai abbastanza nota, Licia Maglietta) è una casalinga napoletana trapiantata a Pescara, una donna dolce, passiva, non lontana dalla mezza età, apparentemente fragile, con un marito e due figli. È in gita organizzata con la famiglia a Paestum. I figli sono adolescenti, tutti concentrati sulla loro vita. Il marito abruzzese (un grande Antonio Catania) è insofferente e la bistratta, senza neanche rendersene conto: la sottovaluta, la tradisce, la tratta con sufficienza, come se fosse un oggetto di sua proprietà, coi tratti tipici del piccolo imprenditore venale e tradizionalista solo con la vita altrui. Rosalba viene dimenticata in un autogrill durante una sosta del viaggio di ritorno. Si ritrova sola, senza denaro, senza punti di riferimento. Questa situazione piena di disagio si trasforma improvvisamente in un’occasione di cambiamento. Decide di non aspettare il pullman turistico ma di tornare a casa in autostop con alcuni personaggi incontrati per caso e accade qualcosa: la possibilità di immaginare (e rendere reale) uno scenario diverso della propria esistenza. A questo punto Rosalba anziché svoltare in autostop a casa sua, a Pescara, schiaccia l’acceleratore e procede verso il Nord, approdando di notte a Venezia, la città più turistica del globo, che però lei ha sempre e solo sognato e mai visitato. In questo caso Venezia non è solo una città, ma uno stato mentale, è il mistero, il fascino, è un altrove da scoprire, più quotidiano e meno turistico in questo film, che si affaccia sul ventunesimo secolo e rappresenta un’epoca così vicina ma già scomparsa. Nella laguna, Rosalba incontra altri personaggi tanto squinternati quanto poetici. Si fa ospitare nella sua casa dal vecchio ed ermetico cameriere Fernando (il celebre attore svizzero Bruno Ganz), un islandese trapiantato in Italia che da insofferente al suo controllo della casa se ne affeziona e riscopre grazie a lei l’amore per la vita (facendole trovare pane e colazione pronti ogni mattina) e la cura per il nipote. Rosalba si fa anche assumere come aiutante da un fioraio veneziano libertario e burbero (l’umorista Felice Andreasi) che la paragona a Vera Zasulich, un’anarchica russa dell’Ottocento. Questo le impartisce lezioni sui fiori (e sui tulipani) e sull’importanza della lentezza delle cose belle. Nei giorni successivi, Rosalba si ripromette di riprendere il viaggio e tornare a casa, ma per ben due volte perde (volutamente) il treno. Desidera rimanere lì, ha epifanie e proiezioni, riscopre passioni e capacità sopite, come quello per suonare la fisarmonica; ritrova l’amore per se stessa e ricostruisce un senso di autostima, fatto di possibilità di darsi valore. Stringe inoltre amicizia con Grazia (la briosa Marina Massironi), massaggiatrice olistica in cerca d’amore, e cerca di sfuggire a Costantino (Giuseppe Battiston), un idraulico imbranato assunto dal marito di Rosalba per riportarla a casa e farla tornare ad essere moglie e madre a tempo pieno.

In Rosalba possiamo vedere una metafora delicata e allusiva di ciò che accade a tante donne vittime di violenza (che sia verbale, fisica, economica). Subire violenza significa sottoporsi ad un processo di umiliazione al quale è davvero difficile sfuggire. Si inizia col sentirsi in pericolo, si cerca la strada più semplice per sopravvivere: subire in silenzio, senza ribellarsi. Si perde fiducia in se stesse e negli altri, si immagina che nessuno possa essere d’aiuto e che la situazione sia senza via di scampo. “Pane e tulipani” è un film terapeutico, anti-depressivo, che con le sue afose luci anni ‘90, il tema del viaggio, il messaggio di speranza, delicato e profondo sull’autostima e sulla crescita personale, come sono presenti in altri film di Soldini con la Maglietta (“Le acrobate” e “Agata e la tempesta”), è da consigliare a chiunque si senta insoddisfatto/a, oppresso/a o senta di aver timore nel fare un passo avanti verso un cambiamento. Il finale coglierà di sorpresa lo spettatore, quando ormai tutto sembrerà canonicamente tornare al proprio “giusto” posto.

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