In molte parti del mondo, accedere a cure mediche sta diventando sempre più difficile. I tempi d’attesa si allungano, i reparti ospedalieri sono sotto pressione e sempre più pazienti si trovano senza un medico di riferimento. Tra le cause troviamo anche la carenza cronica e crescente di personale sanitario qualificato. Questa non è una difficoltà che riguarda solo i Paesi poveri. Il caso del Nord del Canada, dove vivono prevalentemente comunità indigene, è emblematico: nonostante l’alta densità nazionale di medici e infermieri, queste regioni soffrono di gravi carenze di personale.
Il problema è strutturale, complesso e, soprattutto, globale. La letteratura scientifica spiega che alla base di questa crisi ci sono (almeno) tre fattori chiave: la scarsa formazione, l’inefficiente reclutamento e la difficoltà nel trattenere il personale una volta formato. In molti Paesi a basso reddito, il numero di scuole di medicina e infermieristica è insufficiente, e a mancare sono anche le risorse per garantire una formazione di qualità. Questo produce un numero ridotto di professionisti, spesso costretti a lavorare in condizioni precarie, con stipendi bassi e senza possibilità di aggiornamento o crescita professionale. Nei Paesi ad alto reddito il personale medico si trova di fronte a stipendi insufficienti, mancanza di prospettive di carriera, ambienti di lavoro difficili e inadeguati, sistemi sanitari instabili. Così i medici si spostano là dove trovano salari più alti, possibilità di specializzazione, strutture moderne, stabilità economica e sociale, e, perché no, un futuro migliore per i propri figli.
Il fatto è che questa migrazione, spesso presentata come una semplice scelta personale, ha invece forti implicazioni collettive. Si tratta di una questione economica, ma con profonde conseguenze di natura morale e politica.
La fuga di medici e infermieri solleva anzitutto un delicato dilemma etico. Da un lato, ogni individuo ha il diritto fondamentale di cercare migliori opportunità di vita e di lavoro, anche all’estero. Questo principio rientra nella libertà di movimento riconosciuta dai trattati internazionali e tutelata da numerose costituzioni nazionali. Limitare la possibilità di spostarsi significherebbe compromettere diritti personali, come la libertà di scelta, di ambizione e di miglioramento delle proprie condizioni di vita. Dall’altro, però, la partenza di questi professionisti lascia spesso scoperti interi territori, aggravando le disuguaglianze sanitarie e mettendo a rischio la salute di milioni di persone. In molti casi, non si tratta solo di un vuoto momentaneo, ma della paralisi di interi settori del sistema sanitario locale, già fragile in partenza. La questione è scomoda: è giusto impedire a un medico o a un infermiere di emigrare per tutelare il diritto alla salute di chi resta? O si rischia, così facendo, di violare la libertà personale in nome di un bene collettivo? È una domanda che non ammette risposte nette, ma che impone una riflessione profonda su cosa significhi davvero “giustizia sanitaria globale”. Per alcuni, impedire la migrazione equivale a sacrificare l’individuo per salvare il sistema. Per altri, permettere che i professionisti se ne vadano equivale ad abbandonare le popolazioni più vulnerabili a un destino di sofferenza e disuguaglianza.
A complicare ulteriormente il quadro vi è un’evidente asimmetria: i Paesi ricchi attirano talenti da quelli poveri, beneficiando di risorse umane formate altrove, senza doverne sostenere i costi iniziali, ma privando al contempo le regioni d’origine di competenze vitali. Per i Paesi (soprattutto a basso reddito) da cui partono questi professionisti, le conseguenze possono essere devastanti. La più evidente è la perdita immediata di personale qualificato in contesti già segnati da carenze croniche. Ma l’impatto è anche economico e strutturale dal momento che comporta una perdita di capitale umano e formativo. Uno Stato investe ingenti risorse per formare medici e infermieri, spesso coprendo buona parte dei costi ma a che pro? Cinicamente si potrebbe scrivere: nella speranza, forse, che chi parte torni dopo anni all’estero, e ritorni con nuove competenze, esperienze internazionali e capacità che possono rafforzare i sistemi sanitari locali, se adeguatamente valorizzate…
Dal punto di vista dei Paesi riceventi i medici dall’estero, i vantaggi sono più evidenti: riescono a colmare i vuoti nei reparti ospedalieri, a contenere i costi della formazione interna e a garantire un’assistenza più ampia alla popolazione. Inoltre, una volta integrati, i lavoratori stranieri pagano le tasse, partecipano alla vita economica e sociale del Paese ospitante e spesso si stabiliscono stabilmente contribuendo in modo duraturo. Nei Paesi di arrivo, tuttavia, i medici sono accolti, non di rado, dalla retorica populista secondo la quale i lavoratori migranti possano “rubare” il lavoro ai professionisti locali e, con la presenza, porterebbero a una compressione dei salari (cosa non corretta, perché in molti sistemi sanitari pubblici gli stipendi sono stabiliti per legge, riducendo al minimo questi rischi).
Guardata dal punto di vista tanto dei paesi di partenza quanto di quelli di arrivo, la migrazione sanitaria comporta il rischio di aggravare le disuguaglianze globali e per questo resta un fenomeno che deve essere regolato e gestito con attenzione. Proprio per prevenire squilibri strutturali tra stati, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ad esempio sviluppato un codice di condotta che invita i Paesi ad alto reddito a non reclutare in modo aggressivo da quelli che già soffrono gravi carenze di personale sanitario. La cooperazione internazionale, attraverso accordi bilaterali, può giocare un ruolo decisivo nel compensare i costi della formazione e nel promuovere progetti condivisi di sviluppo sanitario. Tra le soluzioni più promettenti, vi è il modello della migrazione circolare: un sistema che prevede che i professionisti della salute lavorino all’estero per un periodo determinato, acquisendo nuove competenze, per poi fare ritorno nel proprio Paese d’origine e mettere a frutto quanto appreso. Perché questo meccanismo sia davvero efficace, però, sono necessarie politiche flessibili, sistemi di riconoscimento delle qualifiche ottenute all’estero e programmi di reinserimento che valorizzino le competenze acquisite. Ma soprattutto, è indispensabile una visione politica a lungo termine, con investimenti mirati e un forte senso di responsabilità collettiva. Perché la salute non ha confini, e il diritto a essere curati (così come quello a vivere e lavorare dignitosamente) appartiene a tutti.