Quello che le guerre non dicono

Lo scoppio della guerra in Ucraina con le atrocità che ogni giorno fa emergere è fonte di angoscia per qualunque essere umano, per le immani sofferenze che infligge a un’intera popolazione e per i rischi che  comporta per tutto il genere umano. Se non vi sono dubbi che vi sia un aggressore e un aggredito, molti ne restano sul fatto che si sia fatto di tutto per evitare il conflitto e su quale sia la strada per   tentare di uscirne.  Noam Chomsky ha affermato che le motivazioni addotte da Putin non possono giustificare l’invasione di uno stato sovrano. Tuttavia, di fronte a questa orribile invasione, “… gli Stati Uniti devono urgentemente optare per la diplomazia” invece che per l’escalation militare, poiché quest’ultima potrebbe costituire una “condanna a morte della specie, senza vincitori”. In questo desolante quadro, in cui anche la verità è vittima della guerra, quasi mai, anche sui social, si tende a condividere la sofferenza degli altri, come se fosse qualcosa che non ci appartiene, da tenere lontano, da scotomizzare, quasi che fosse un morbo, un virus infettivo che gli altri vogliono scrupolosamente evitare di contrarre. Eppure, condividere il dolore degli altri significa privarci delle nostre maschere, metterci a nudo con tutte le nostre fragilità e paure: la condivisione del dolore è propulsore di solidarietà, di legami che sostengono, di amicizie che riempiono la vita, tutt’altra cosa rispetto alle faziose e bellicose divisioni schierate come tifoserie calcistiche.

Ed è di questo che io voglio parlare. Ho impiegato quasi due settimane prima di mettermi a scrivere queste righe: prima avevo bisogno di lasciar sedimentare il turbinio di emozioni che hanno attraversato il mio corpo e la mia anima dopo l’ultima missione di Mamre tra Polonia ed Ucraina.

Chi ha letto il mio precedente articolo pubblicato su questo blog il 23 marzo scorso, forse ricorderà del TIR carico di aiuti umanitari (130 quintali e 87 metri cubi di volume) da consegnare al Centro Budexim di Jaroslaw, riconvertito in tempi da record in Centro di accoglienza e in grado di ospitare, a lavori ultimati, fino a 1.000 persone distribuite in tre diverse strutture.

Noi, questa volta, siamo partiti in aereo per Cracovia; in aeroporto abbiamo noleggiato tre auto e, dopo una notte trascorsa in albergo in un paesino vicino a Jaroslaw, il mattino seguente abbiamo raggiunto il luogo convenuto dell’appuntamento e atteso pazientemente l’arrivo del pesante mezzo.

Dopo aver scaricato il TIR e riempito i portabagagli delle nostre auto con gli aiuti umanitari da consegnare ai salesiani di Leopoli, il giorno seguente ci siamo diretti alla stazione ferroviaria di Przemysl, città a 20 chilometri dal confine ucraino e resa famosa dalla brutta figura dell’ex Ministro degli Interni Matteo Salvini. La stazione ferroviaria è stata trasformata in un centro di soccorso per donne, bambini e anziani ucraini in cerca di rifugio: i locali antistanti la biglietteria erano gremiti di profughi e anche la piazza era affollata di persone in attesa di un pullman per poter raggiungere familiari e amici. Fuori e dentro la stazione molti gruppi di volontari distribuivano pasti caldi, giocattoli per i bambini, penne, matite colorate e quaderni per i più grandicelli; c’era perfino l’animazione di un ragazzo travestito da drago mentre, poco più in là, un punto informazioni offriva assistenza circa le destinazioni da raggiungere.

I bambini apparivano piacevolmente sorpresi, divertiti per tutte le attenzioni che venivano loro riservate; è bastato poco per farli sorridere, un piccolo orsacchiotto di peluche da abbracciare, un quaderno da scarabocchiare o un chupa chups da leccare.

Diverso era lo stato d’animo delle donne: sguardi preoccupati, occhi spenti, l’angoscia verso un futuro incerto, la preoccupazione per i loro mariti, rimasti oltre confine per combattere o per difendere le poche cose rimaste: le mucche, le capre, o i terreni da seminare nella speranza che questa guerra finisca presto e si possano mettere così le basi per una seppur difficile ripartenza.

Ma è nelle persone anziane che si coglieva il senso maggiore di smarrimento, la consapevolezza di aver perso ogni cosa, la rassegnazione di chi sa che non vedrà più la propria casa, la propria terra, in attesa di raggiungere un “altrove” ignoto, privati del proprio passato, senza alcuna prospettiva per il futuro, cristallizzati in un eterno presente spogliato di ogni anelito di felicità. Mi ha colpito l’immagine di quella anziana signora, in sedia a rotelle, che teneva strette a sé le grucce, tutto quello che le era rimasto, mentre tentava di abbottonarsi il cappotto a causa del freddo pungente senza lasciarle cadere.

Lasciato Przemysl, ci siamo diretti alla volta di Medyka, la porta nord dell’Europa (a dire il vero, ce ne sarebbe anche un’altra, quella al confine con la Bielorussia, ma quella è vergognosamente sbarrata con il filo spinato mentre le persone che fuggono da altre guerre, vengono lasciate morire di fame e di freddo, impedendo anche ai volontari di prestare soccorsi).   Qui la Polizia non ci ha consentito di passare la dogana con i nostri mezzi, ma ci ha obbligato a lasciare le nostre auto in un vicino posteggio e quindi abbiamo proseguito a piedi, carichi dei pesanti bagagli, lungo una stradina sterrata che costeggia il confine tra Polonia e Ucraina. Incamminandoci per la piccola stradina che porta alla dogana polacca, ci siamo trovati circondati da bancarelle da tutto il mondo. C’era il presidio della comunità pachistana in Germania che offriva té bollente; c’erano i Sikh, provenienti dagli Stati Uniti, che preparavano cibo indiano; c’erano gli israeliani di Sauveteurs sans frontières che distribuivano pasti caldi…

Dall’altra parte della frontiera c’era ad attenderci Don Grisha Shved, Direttore Salesiano a Leopoli, insieme ad un suo confratello. A loro abbiamo consegnato gli scatoloni e i borsoni pieni di medicinali, articoli per l’infanzia e di prima necessità, insieme ad un contributo in denaro; i salesiani, nelle loro 15 case sparse sull’intero territorio nazionale, stanno fornendo supporto e accoglienza a centinaia di sfollati interni. 

Barbara Taccone, giornalista e volontaria di Mamre che ha condiviso con noi questo viaggio, ha lasciato scritto sulla sua pagina di FB: “Come sono lunghi i 500 metri che separano la Polonia dall’Ucraina, così lunghi che anche le lancette corrono avanti di un’ora. Un cancellino aperto, un nonnulla, un viottolo che separa la Pace dalla guerra, che separa l’orrore, la tragedia, la distruzione dalla vita che scorre normale. A cinquecento metri di distanza i bambini con gli zainetti che vanno a scuola, intravedono altri bambini con gli stessi zainetti, mano nella mano, che scappano dai missili, dalle bombe, dalla paura. 

E chissà com’è dire addio sperando tanto che sia un arrivederci. Com’è salutare un figlio, marito, fratello, il cane e superare quella frontiera al contrario, quando la tua casa non è in quella direzione ma dall’altro lato. Io non lo so com’è. Tutte le frontiere che supero, anche quelle più tristi, mi riportano sempre a casa. 

Io non lo so come possa essere spegnere le luci, chiudere la porta senza sapere se, a cosa, a chi o quando si tornerà, ma in tutti gli abbracci e le lacrime che mi sono ritrovata davanti agli occhi stamattina, ho trovato delle lacrime mie, lacrime ipotetiche forse, fatte a metà dei miei “se”, e per l’altra metà della realtà di questo fiume d’anime che si trascina a fatica insieme ai suoi bagagli. 

Ho fissato il cielo in Ucraina, a lungo, ho scrutato le transenne che separano – per l’ennesima volta – l’Europa dalla disperazione e, per l’ennesima volta, non ho trovato il discrimine, il punto di separazione. So solo che chi sta da una parte di quel blu, stasera, se Dio vuole, dormirà nel suo letto, come me. E chi sta nell’altro pezzo d’azzurro, sentirà le sirene suonare, le macerie cadere, vedrà un figlio partire. Ecco quanto possono essere lunghi 500 metri, una distanza che non sono mai riuscita a capire, o a spiegare”.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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