Per deformazione professionale sono portata a credere che la narrazione, più di qualunque altra cosa umana, possegga il potere di unire le persone. Narrare la tragedia di una singola donna o uomo, con un nome e un’ identità definita, aumenta esponenzialmente la capacità di provare compassione da parte di chi ascolta, molto più che allargare quella stessa tragedia a includere un gruppo più ampio di persone, per quanto unite dalle stesse caratteristiche culturali, etniche o religiose.
Mi riferisco in particolare al popolo gazawi e allo sterminio cui stiamo tutti assistendo, in piena consapevolezza, perché disponiamo ormai di un archivio corposo di documentazioni al limite della sopportazione. Eppure, per quanto cerchiamo nel nostro piccolo di contribuire allo sdegno collettivo con accorati appelli e condivisioni, trovo che tendiamo un po’ tutti a ricadere nella trappola del distacco protettivo: è troppo, sono troppi, io non posso nulla.
Probabilmente è vero. Noi, a parte continuare a marciare per strada con striscioni e bandiere della Palestina, possiamo ben poco. Ma credo che se riuscissimo a riportare più storie singole e specifiche, con persone reali che hanno nomi, lavori, figli e collocazioni ben definite, sono certa che riusciremmo a restituire dignità a un intero popolo.
Mi spiego meglio: la Storia ha tracimato via con sé centinaia di migliaia di vite umane dentro combattimenti, bombardamenti, esecuzioni di massa, dove l’umano è stato ridotto a numeri di decessi senza più facce né storie. Cumuli di macerie e corpi, tutti uguali, da riportare sui manuali o nei documentari storici. La letteratura invece ci ha restituito quelle facce, scegliendo a caso, tra lo sfacelo di vite, alcune da salvare. Ha restituito i nomi, li ha inseriti in contesti quotidiani in cui tutti ci potevamo riconoscere e ha illuminato la loro storia.
Abbiamo così sentito sulla pelle la violenza cieca e devastatrice della seconda guerra mondiale aggrappati alla vita di una semplice vedova e maestra di Roma, per citare il capolavoro di Elsa Morante, ma anche tutte le altre, dai colpi di stato in Corea, alle trincee della prima guerra mondiale, dai massacri etnici nei Balcani a quelli in Africa.
Le storie ci riportano dal generale al particolare e forse per interrompere il processo di disumanizzazione che ogni conflitto porta con sé, perché non siamo in grado di accogliere tutta insieme la disperazione di un intero popolo, dobbiamo cercare le storie dei singoli, condividerle e custodirle.
Per questo motivo voglio riportare la storia di Alaa al-Najjar che sicuramente avete già letto e sentito in molti perché è stato un fatto così tragico e inaudito da non passare inosservato.
La dottoressa Alaa al-Najjar aveva da poco cominciato il suo turno nel reparto di terapia intensiva pediatrica all’ospedale Nasser, nel sud della Striscia di Gaza, dove ogni giorno cerca di salvare le vite dei figli dei palestinesi colpiti dai bombardamenti israeliani.
È un lavoro pericoloso il suo, perché gli ospedali vengono regolarmente colpiti dai jet.
Mentre la donna è in corsia un missile colpisce casa sua e uccide nove dei dieci figli di Alaa al-Najjar. La vittima più piccola ha sette mesi, la più grande dodici anni. Sette dei nove corpi vengono recuperati smembrati e carbonizzati e sono portati all’obitorio dell’ospedale Nasser dove lavora la madre. Il marito, che fa anche lui il medico, viene ricoverato nel reparto di terapia intensiva dove di solito lavora. Un funzionario del ministero della Sanità di Hamas l’ha descritta come “calma, paziente, composta”. Un sanitario addirittura ha detto che la donna ha continuato a lavorare, per aiutare altri feriti. Difficile distinguere la propaganda dalla verità. Impossibile immaginare il dolore di Alaa.
Non è la prima volta che una famiglia intera sparisce sotto le bombe di un singolo attacco israeliano. Un portavoce dell’Idf ha detto che il palazzo dove c’era la casa di Alaa al-Najjar era in una zona di combattimento e che andava evacuata. Il 13 aprile effettivamente c’era stato un ordine di evacuazione di quell’area, ma il problema è che due terzi del territorio della Striscia, circa il 71%, è sottoposto a un ordine di evacuazione. Alcuni sono di mesi fa, alcuni sono più recenti. Non esiste un’alternativa per centinaia di migliaia di palestinesi in un luogo che era già densamente popolato prima dell’inizio degli attacchi israeliani. Senza contare il fatto che la maggior parte degli ospedali sono inagibili perché parzialmente o completamente distrutti dalle bombe.
Il marito di Alaa al-Najjar non ce l’ha fatta, è morto pochi giorni fa. È rimasto solo Adam, 11 anni e che necessita di interventi chirurgici che al momento nell’ospedale Nasser non sono possibili. Le istituzioni italiane stanno cercando di organizzare un trasferimento affinché il ragazzo possa essere operato in Italia.
La donna ha accettato di essere intervistata dal Corriere della Sera. Quando le hanno chiesto se il ragazzo sapeva della morte dei suoi fratelli e di suo padre ha risposto:
«Da cinque giorni. Ho deciso di raccontargli che cosa è successo alla nostra famiglia solo domenica, quando anche mio marito Hamdi ci ha lasciati. È durissima. Cerco di non fargli pensare a come è diventata la nostra vita. Giochiamo il più possibile. In ospedale ha un tablet e dei colori. Anche i miei nipoti vengono a trovarlo. L’unica cosa che lo fa sorridere è l’idea di venire in Italia. Il mio obiettivo è portarlo fuori da Gaza, se potessimo davvero uscire sarebbe un sollievo. Adam ha bisogno di essere curato in una struttura che funziona».
Lei come sta? Le hanno poi chiesto: «Mi sono affidata ad Allah, non saprei come fare se no. Quello che ci è successo è così enorme che l’unica soluzione è pensare che ci sia un disegno più grande. Ma non scrivete di me come una madre eroica, sono una mamma come tante altre qui, senza più niente. Questo è il mio destino ed è il destino di troppe persone a Gaza. La mia è una storia terribile, ma comune. Non dimenticate gli altri».