Come è noto, il piano europeo ReArm Europe, promosso dalla Commissione Von der Leyen, nei prossimi quattro anni prevede un investimento senza precedenti di 800 miliardi di euro in nuovi armamenti. Questa cifra astronomica, secondo i critici, sottrarrà risorse fondamentali a settori vitali come sanità, istruzione, lavoro e transizione ecologica. Guardando all’Italia, la situazione è tutt’altro che rosea. Secondo il think-tank Archivio Disarmo, per incrementare la spesa militare italiana dall’1,6 al 3,5 per cento del PIL, il bilancio nazionale per la difesa dovrebbe raddoppiare, passando dai 32 miliardi attuali a 65 miliardi annui. Una misura per molti impraticabile, in un contesto di bilanci già sotto forte pressione.
Ancor più preoccupante, tuttavia, è la mancanza di un piano strategico coordinato per il riarmo. Il rischio è che ogni paese proceda in ordine sparso, con doppioni tecnologici, sprechi evitabili e sistemi di difesa non interoperabili, minando così la possibilità di una difesa europea unita. Lo ha ammesso anche l’Alto Rappresentante UE, Josep Borrell: “Ogni paese opera in modo quasi indipendente… Spendiamo tanto, ma otteniamo poco.”
Il tallone d’Achille del piano però rimane la proprietà intellettuale (IP), come ci conferma un contatto che lavora nel settore della tecnologia in Belgio. La difesa moderna, infatti, si basa su tecnologie altamente avanzate – dagli algoritmi radar ai software per la cybersecurity – tutte protette da diritti esclusivi. Il problema è che senza un quadro regolatorio europeo condiviso su titolarità, licenze e accesso alla proprietà intellettuale, l’Unione rischia di alimentare conflitti tra Stati membri e aziende, rallentando processi di innovazione e costruendo dipendenze strategiche pericolose. Senza strumenti comuni, ad esempio, un unico fornitore, che detiene i diritti IP su una tecnologia critica, potrebbe esercitare (teoricamente ma non solo..) un controllo monopolistico, e in scenari di crisi o tensioni politiche, questa dipendenza potrebbe rivelarsi un pericolo per l’intera difesa europea.
L’assetto attuale non rischia solo di rafforzare la concentrazione di potere nelle mani di pochi grandi attori industriali indebolendo la concorrenza, strettamente legata all’innovazione, e creando fragilità sistemiche. A ciò si somma l’uso di tecnologie che sono di proprietà esclusiva di alcune aziende, che non seguono standard aperti e il cui codice non è reso pubblico. Ciò rende quasi impossibile l’integrazione di componenti realizzati da altri o l’interoperabilità del sistema, aumentando costi, rallentando operazioni congiunte e pregiudicando la prontezza strategica europea.
Per l’esperto con cui abbiamo parlato sarebbe insomma più lungimirante un cambio di paradigma, che includa meccanismi di governance europea dell’IP, standard aperti e licenze interoperabili, co-investimenti in ricerca e sviluppo, bandi pubblici collettivi e incentivi a un tessuto industriale europeo equilibrio tra grandi aziende e PMI. Solo così l’Unione potrà costruire un sistema di difesa resiliente, competitivo e integrato, in grado di ospitare tanto la coesione strategica quanto la cittadinanza comune. Diversamente (e a quanto pare è quello che sta avvenendo), ReArm Europe è una corsa affannosa al riarmo, consumata tra inefficienze e interessi nazionali, corruzioni e interessi specifici.