Ricorda il mio nome

Il 18 Novembre Gino Cecchettin, insieme alla sua famiglia, ha presentato alla Camera dei Deputati la Fondazione Giulia Cecchettin, per aiutare le vittime di violenza di genere. Nel suo discorso ufficiale ha ricordato che “ i femminicidi sono frutto di un fallimento collettivo: non sono solo una questione privata. Dobbiamo educare le nuove generazioni.”

Come è prassi nelle cerimonie istituzionali, è stato tirato in ballo anche il ministro dell’istruzione e del merito Valditara, il quale, con un video messaggio, non si è risparmiato affermazioni devianti e fuori luogo. La prima è stata quella di circoscrivere il problema della violenza di genere ai casi di marginalità sociali causati dalla pressione migratoria fuori controllo. In secondo luogo ci ha tenuto a specificare l’inutilità, puramente ideologica, di ricercare nel patriarcato l’origine del fenomeno.

Cito l’estratto del suo discorso: «La visione ideologica vorrebbe risolvere la questione femminile lottando contro il patriarcato. Ma come fenomeno giuridico è finito con la riforma del diritto di famiglia del 1975, che ha sostituito alla famiglia fondata sulla gerarchia la famiglia fondata sull’ eguaglianza».

Al di là della mancanza di credibilità e di tatto verso il padre di una vittima di femminicidio per mano di un ragazzo italiano “per bene”, le sue affermazioni risultano inesorabilmente false, in quanto sui 96 casi di femminicidio denunciati in Italia da gennaio a novembre 2024, 82 donne sono state uccise in contesti famigliari, di queste, 52 donne, per mano del proprio partner o ex partner. Alla faccia del suo diritto di famiglia del 1975.

Ma questo lo sappiamo già tutti, tranne il ministro, perché ci viene ricordato ormai ogni 72 ore circa, ascoltando o leggendo le notizie, dell’ennesimo caso di una donna uccisa solo perché donna.

Piacerebbe a tutte noi svegliarci una mattina e scoprire che magicamente il patriarcato è voltato via, puff, sparito. Purtroppo se stiamo ancora tutte qui a scriverne, parlarne, gridarlo nelle piazze pubbliche e in quelle virtuali è perché, come al solito, il linguaggio fa paura e dover ammettere che la violenza di genere è un problema sistemico e culturale che ci riguarda tutti e tutte, è molto più difficile che puntare il dito sugli immigrati sporchi e cattivi e sulle femministe isteriche e intrise di ideologismi.

Come dovrebbero reagire e comportarsi, con i loro ragazzi, tutti gli insegnanti che di fatto vengono rappresentati da questo ministro? Dovrebbero smettere di portare avanti iniziative autonome di educazione affettiva, là dove lo Stato non vuole intervenire? Dovrebbero smettere di far leggere testi e saggi che spieghino alle ragazze e ai ragazzi come riconoscere il patriarcato insito nel linguaggio culturale, professionale, colloquiale? La soluzione sarebbe smettere di parlarne come di un’emergenza che ci riguarda tutti, soprattutto sottraendoci alla responsabilità che abbiamo di potere, un passo alla volta, scardinare un sistema culturale proprio a partire dal linguaggio?

La domanda è chiaramente retorica, le affermazioni del ministro sono state prese per quello che sono e chi si interessa attivamente al problema continua indisturbato la sua battaglia pubblica.

C’è chi dal dolore più dilaniante riesce a riemergere impegnandosi con la sua voce e le sue azioni a creare consapevolezza, come il padre di Giulia Cecchettin e c’è chi continua a scriverne e divulgare. Tra queste c’è la scrittrice Anna Bardazzi, che ha realizzato un podcast di alto livello ed estremamente necessario.

Si chiama “Ricorda il mio nome” e ripercorre in ogni episodio la storia di una donna vittima di femminicidio.

Perché se è vero che di alcune di queste storie ricordiamo vagamente i nomi, per l’efferatezza dell’uccisione o per una momentanea ondata mediatica, quasi nulla rimane sulla vita e il contesto delle vittime, che spesso vengono tralasciati a favore di dettagli inutili sullo stato di depressione o stress dell’assassino.

Anna Bardazzi attraverso un lungo lavoro di ricerca, anche negli atti giudiziari, ricostruisce le vicende a partire da molto prima dell’omicidio, per permetterci di avvicinarci a queste donne, comprenderne le scelte, le speranze, le difficoltà dentro relazioni con uomini differenti ma tutti uniti da una percezione confusa e deviata del loro ruolo: fragili, arrabbiati, frustrati o semplicemente incapaci di riconoscere come violenza gli atti che compiono sulle donne, fino al gesto fatale.

Donne uccise prevalentemente per vendetta, per reazione a scelte di indipendenza non contemplabili. Ciò che emerge sempre è la percezione della pochezza del corpo femminile, della vita di queste donne, che viene presa senza indugi come un diritto di rivalsa estremo eppure, tutto sommato, accettabile a compensare le “sofferenze” provate dagli uomini a “causa” di quest’ultime.

La scrittura della Bardazzi, ha uno stile letterario e fortemente emotivo, che vuole spingere sull’empatia verso la persona, prima che sulla vittima. Questo approccio è estremamente funzionale alla causa, perché trasforma queste donne in eroine tragiche, in cui tutte noi possiamo sotto vari aspetti riconoscerci.

Nessuno degli uomini raccontati è un mostro, nessuno è stato dichiarato incapace di intendere o volere. L’equilibrio della vicenda e delle dinamiche viene riassettata sulla realtà dei fatti, in cui non c’è stato nessun raptus a spingere gli assassini, solo estreme conseguenze di un condizionamento culturale e sociale fondato sull’abuso di potere e la certezza che il corpo e la vita delle donne siano proprietà private di  cui poter disporre liberamente.

“Ricorda il mio nome” realizza l’intenzione del suo titolo. Chi ascolta queste storie non potrà più restare indifferente quando sentirà ancora il nome di Laura Zizzo, Andreea Cristina  Zamfir, Carmela Morlino, Dina Dore, Sonia Di Maggio e tutte le altre.

La nota attrice e comica Alice Mangioni ha fatto una lunga dichiarazione il 25 novembre nel giorno della Giornata Mondiale contro la violenza di genere che conclude con queste parole: “La domanda che molti uomini rivolgono alle donne è – Dove cazzo vai senza di me? –, la risposta che molti uomini non sanno accettare, nasce qui.” E continua immaginandosi una risposta diversa, una risposta di libertà: “Quella donna vorrebbe rispondere lontano, da sola, per mano con le sue amiche, figli, madri, sorelle, e anche per mano con un uomo, e mai più morire per mano di un uomo”.

Forse l’unica risposta che si può dare al Ministro è portare nelle scuole contenuti come questo: un podcast che ci restituisca tutta la dignità della vita delle vittime di femminicidio e ci rispieghi ancora una volta, con parole forti e chiare, perché il patriarcato è ancora vivo e vegeto, a differenza di chi, proprio a causa sua, viene uccisa.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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