Salute e benessere: verso la “medicina della persona”

Salute e benessere si equivalgano? Dire che stiamo bene significa anche che non siamo malati?

L’occasione per (ripro)porre questo quesito è la Giornata Mondiale della Salute, celebrata lo scorso 7 aprile, come ogni anno e ormai dal 1948, quando questa data venne istituita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

Ci sono persone che si sentono malate ma senza “avere” alcuna malattia esplicitamente diagnosticabile, ad esempio come risultato di stress; e donne operate di cancro al seno che possono sentirsi ancora “malate” anche se con l’operazione il cancro è sparito. In questi e altri casi, è evidente che la storia della malattia si intreccia con la comprensione del malessere individuale. “Proprio come ci ha insegnato Umberto Veronesi, per il quale per fare il medico bisogna amare la gente, il che significa prendersi cura della persona malata aiutandola integralmente.” A parlare, ricordando l’oncologo, scienziato e maestro scomparso nel 2016, è Giorgio Macellari, anch’egli oncologo nonché Membro del Comitato Etico Fondazione Umberto Veronesi. “Oggi – continua Macellari – la salute è un concetto strettamente legato alla responsabilità individuale e che ha a che fare con uno stato di funzionamento fisico e mentale il quale non può che realizzarsi anche allinterno di un contesto sociale.” 

La centralità della persona nel percorso di cura e l’importanza di campagne di prevenzione così come di interventi di promozione della salute a livello societario sono costitutivi di un paradigma medico recente. Molto recente. E per il suo affermarsi sono state necessarie due rivoluzioni.

Per capirle dobbiamo fare un salto indietro agli albori della medicina. Precisamente dobbiamo tornare al pensiero greco. Qualche tempo fa, ho fatto questo “viaggio nel tempo” proprio con l’aiuto di Giorgio Macellari: “Fino a pochi secoli fa, la medicina moderna era ancora fondata nella concezione ippocratica, secondo la quale le malattie erano manifestazioni di sintomi che l’esperienza intellettuale del medico organizzava in modo da rendere possibile e giustificare la pratica clinica. La portata del giuramento di Ippocrate era certamente rivoluzionaria: tra il quinto e il quarto secolo prima di Cristo, la malattia perdeva ogni connotato morale o religioso per diventare un fenomeno naturale, immanente all’organismo.”

Tuttavia, non c’era (e per molti secoli non ci fu), in questo pensiero medico dominante, spazio per principi quali autonomia e cura di sé. Insomma, il pensiero socratico di epimèleia heautoù (“cura di sè”) non rientrava tra i capisaldi delle relazioni umane in medicina. “Ci si preoccupava di regolare il potere del medico e di non danneggiare il malato, ma non di valorizzare la posizione del paziente, per lo più ritenuto incapace di prendere giuste decisioni di fronte alla malattia”, spiega Macellari. Basta leggere il libro Ippocratico intitolato Epidemie: “Il medico è ministro dellarte (medica): si opponga al male il malato insieme con il medico”. Si dovrà arrivare fino alla seconda metà del Novecento per rompere con questa concezione.

La svolta è segnata dalla scoperta del DNA da parte del biologo James Crick e del fisico Francis Watson, padri della mappatura del genoma umano. Ecco, a partire da questo milestone scientifico, che fu certamente un passo cruciale nella ricerca medica e fondamentale per la nascita dell’ingegneria genetica, si insinua la domanda della relazione tra sapere scientifico e responsabilità morale. E L’uomo viene posto al centro.

“In ambito medico – continua Macellari – ciò comporta una vera rivoluzione copernicana nella relazione tra paziente e medico, al quale è ora richiesto non di curare la malattia ma di aiutare le persone a massimizzare la propria salute e, al contempo, di fornire informazioni necessarie affinché i malati possano prendere decisioni consapevoli riguardo alla propria salute.”

Ma le rivoluzioni non sono finite qui… infatti a partire dagli anni 2000 stiamo assistendo a una nuova rivoluzione, con al centro del sistema sanitario non più il malato ma la persona malata. Si parla oggi di “medicina della persona”, definizione che si regge sulla considerazione della salute come un obiettivo il quale deve essere conseguito mediante un’attenzione alle diverse necessità della persona malata, da quelle di ordine biologico a psicologico e sociale.  “All’attenzione per l’afflizione medica (l’aver una malattia organica) si affianca quella per l’afflizione medica, ovvero come la singola persona vive il proprio stato di salute. I medici sono quindi chiamati a prendere in esame l’influenza congiunta dei molteplici contesti di vita e le loro modalità di interazione con la persona malata, contribuendo a modificarne le condizioni di salute e benessere” precisa Macellari, con implicazioni così anche di carattere sociale.

È questa una rivoluzione ancora in corso, della quale abbiamo visto un segno importante durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 2015, a New York, in occasione della quale sono stati annunciati gli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile con riferimenti anche alla necessità di lavorare congiuntamente a sostegno di sistemi di supporto alla cura e all’assistenza delle persone integrandoli ai servizi e alle attività culturali e sociali forniti dai territori, dalle persone e dalle comunità. Per arrivare poi al 2022, quando la Social Prescribing Academy, la World Health Organisation (WHO), il World Health Innovation Summit  (WHIS) e UNGSII Foundation hanno pubblicato e diffuso il Playbook Global Social Prescribing Alliance, un ulteriore passo per ribaltare l’ancora – generalmente – presente cultura “medicocentrica”, per la quale il consumo di servizi sanitari formali porta alla produzione della salute della popolazione, dimenticando che salute non significa assenza di malattie.

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