Schaerbeek, migrazione e integrazione in Belgio: perché tanto passa attraverso l’apprendimento linguistico

Arrivando a Bruxelles dalle Fiandre si è accompagnati da una distesa di campi: mais e patate soprattutto; non mancano spazi verdi incolti. Poi, mano a mano che ci si avvicina alla capitale, iniziano a susseguirsi capannoni e fabbriche, grandi centri di smistamento. L’aeroporto di Zaventem è solo a pochissimi minuti di strada dalla periferia della città, poco più di tredici chilometri che, in auto, possono diventare anche ore in colonna. Il traffico è intenso e andare dalla periferia al cuore di Bruxelles può rivelarsi una prova di resistenza e pazienza. 

Sheerbeerk è uno dei comuni che si attraversano per raggiungere, dallo scalo aeroportuale, il centro bruxellese ed è divenuto tristemente famoso anche all’estero in seguito al recente attacco terroristico dove hanno perso la vita due persone svedesi: proprio nelle vie di questo comune ha avuto luogo lo scontro tra il terrorista e le forze della polizia. 

Con i suoi 133,000 abitanti, Schaerbeek è il secondo comune più popoloso dell’agglomerato “Bruxelles-Capitale” e uno di quelli più ricchi di contrasti e contraddizioni. Sede delle principali emittenti mediatiche del paese, da RTBF a VRT, da RTL/TVI, a Be tv, è un vivace centro urbano, multiculturale, ricco di attività imprenditoriali, café e brasserie; ha un vibrante tessuto associativo e nel quartiere si trovano diverse case della solidarietà.

Ma Schaerbeek è anche (e allo stesso tempo) un comune mediamente “povero” per gli standard belgi, segnato da precarietà e disagi sociali, come le cronache locali non mancano di sottolineare in diverse inchieste legate a fatti di criminalità e spaccio di droga, come nei pressi della vicina stazione di Bruxelles Nord, dove si trova anche il quartiere a luci rosse di Bruxelles. Non era ancora passato un anno dal mio arrivo in Belgio e già avevo sentito parecchie volte parlare di Schaerbeek: proprio lo scorso Natale, ad esempio, c’erano stati un morto e diversi feriti tra le oltre mille persone che da qualche tempo avevano occupato un palazzo dismetto in rue des Palais.

Con oltre 200 nazionalità diverse al suo interno, quasi il 32% della popolazione con nazionalità straniera e il 39% di chi vi abita con età inferiore ai 18 anni, a Schaerbeek le questioni di identità sono acute, insieme alle realtà strutturali dell’esclusione sociale, che in alcuni casi è – va detto – auto-costruita. Come ha messo in luce uno studio su membri della numerosa popolazione di origine turca. I dati, che non sono recenti (va detto!) e risalgono al 2012, mettono in luce come quasi tutte le famiglie provenienti dalla Turchia parlano principalmente turco (o curdo) a casa. Nello studio si sottolinea anche che a Schaerbeek l’identificazione dei giovani stranieri con il proprio quartiere o la propria strada è in alcuni casi così forte da impedire loro di esporsi troppo al mondo circostante, nel quale ci si muove con un senso di spaesamento e tensione continua l’attaccamento verso i propri genitori (e tradizioni, anche religiose) e sentimenti di apertura o interesse verso persone di estrazione mista e/o laica che convivono nello stesso comune (qui per maggiori informazioni).

Una politica migratoria frammentata e l’importanza di investire nell’apprendimento linguistico

Si è ripetuto da più parti, e troppo facilmente, che il problema di Schaerbeek sono proprio le grandi comunità “straniere” che vi risiedono; per molti, poi, “il caso Schaerbeek” è un indicatore che sottolinea la necessità di cambiare anzitutto la politica di accoglienza belga (cosa che per altro si sta cercando di fare da alcuni mesi e inequivocabilmente con l’annuncio del governo del paese di non fornire più – “temporaneamente” – posti di accoglienza ai richiedenti asilo maschi soli, per dare priorità alle famiglie e ai bambini a fronte dell’arrivo della stagione invernale). Giusta o sbagliata (per chi scrive, sbagliata!) questa linea politica di governo, rimane il fatto che il problema dell’accoglienza che comuni come Sheerbeerk devono gestire non è pari a quanto avviene nelle Fiandre, regione che riceve molti meno richiedenti asilo in proporzione alla sua popolazione rispetto alle restanti zone del Belgio. Secondo dati recenti, Bruxelles accoglie 4,8 richiedenti asilo ogni 1.000 abitanti e la Vallonia 4,6, mentre sono meno di due i richiedenti asilo ogni 1.000 abitanti ospitati nelle Fiandre. La riluttanza di questa regione a contribuire alla gestione della crisi dell’accoglienza non è una novità e se ne è parlato nei media pochi mesi fa, quando il governo fiammingo si è schierato per chiudere il centro di accoglienza a Koksijde, vicino alla costa, nel nord del Paese. 

Al di là dei numeri sull’accoglienza – che pur sono molti importanti – le differenze tra le regioni del Belgio toccano anche la “modalità” della gestione dei flussi e delle richieste da parte dei migranti. Nelle Fiandre è obbligatorio per chi arriva da un paese non UE seguire un corso di integrazione, ovvero apprendere l’olandese e familiarizzare con i pilastri di civica sui quali si regge la regione. Ma non solo: gli immigrati extracomunitari ricevono assistenza per registrarsi presso i servizi per l’impiego e si prevede che, raggiunta una conoscenza minima della lingua locale, essi partecipino attivamente alla società mettendo a disposizione 40 ore del proprio tempo. È in discussione anche l’obbligatorietà di accettare una formazione e poi un lavoro in quei settori dove manca il personale. Non si tratta solo di macellai e autisti, che pure sono pochi, ma anche infermieri e assistenti di asili nido. Nella comunità francofona un sistema di apprendimento della lingua e civica esiste ma il piano di integrazione è più limitato rispetto alle Fiandre, dove le persone possono essere sanzionate se rifiutano di partecipare al programma di integrazione con multe o, addirittura, tagli alle prestazioni sociali.

Ecco, a fronte di tutta questa confusione di norme e regolamentazioni, la percezione che si ha (pur vivendo da poco in Belgio, va detto!) è la debolezza di una Stato federale dai poteri frammentati, ma soprattutto è la presa di coscienza che l’integrazione è un processo di apprendimento bidirezionale e può dare risultati positivi solo se si basa sui principi del dialogo, della coesione sociale e dello scambio culturale. Per tutto questo, la conoscenza linguistica del francese o dell’olandese svolge un ruolo determinante come collante tra culture e mezzo per aiutare l’esistenza di identità multiple che sono a proprio agio le une con le altre e possono coesistere tanto nella vita privata quanto pubblica dei migranti.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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