“Seasperacy”, ovvero quale impatto può avere un documentario sulla nostra vita quotidiana

Ci sono libri che ti chiamano dallo scaffale. Rimangono silenti per mesi e poi ti fanno capire che è arrivato il loro momento. La stessa cosa capita con i film. Seasperacy, il documentario uscito nel 2021, del regista Ali Tabrizi è rimasto nella mia lista di Netflix per più di un anno e poi qualche sera fa, mio malgrado, mi ha chiamato.
Nonostante fossi preparata e avessi già letto alcune recensioni e commenti al riguardo, non è stata una visione piacevole né tanto meno edificante.

La sensazione primaria, che si insinua subdola in maniera molto graduale, per poi avvinghiarsi alla coscienza per giorni, come i tentacoli di una spaventosa piovra, è la frustrazione.
Perché per chi come me è già sensibile al tema degli allevamenti intensivi di carne, della nocività dei cibi processati, delle attestazioni biologiche sugli ortaggi, del consumo eccessivo di plastica, delle condizioni di lavoro insostenibili delle industrie dell’abbigliamento fast fashion in Asia (e fermo qui l’elenco), scoprire rivelazioni così scioccanti anche nell’ambito della pesca industriale, non può che produrre uno scoraggiamento profondo e un senso di disagio verso la specie umana nella sua interezza, che fatica a lasciarmi dopo i titoli di coda.

Ci sono tre punti nevralgici che vengono trattati nel documentario.

Il primo ha a che fare con il “massacro accidentale” di numerose specie marine, tra le quali i delfini, le tartarughe, squali di varie specie e gli uccelli a causa della pesca a strascico. Questa pratica distruttiva consiste nel trascinare sul fondale oceanico un’enorme e pesante rete (per capirci in grado di contenere una cattedrale) in modo da raccogliere più pesce possibile. Le conseguenze gravi sono due: la quantità esorbitante di “catture accessorie” di animali, cioè non destinati alla vendita, e che per la maggior parte dei casi vengono rigettati in mare già morti e il suo effetto devastante sui fondali, in quanto rimuove i sedimenti, distruggendo così interi habitat.

Grazie al supporto delle informazioni fornite dagli attivisti di Sea Shepherd, una delle più importanti ONG che attraverso flotte non governative cercano da più di quarant’anni di fermare balenieri, pescherecci illegali e cacciatori di foche, l’indagine di Ali Tabrizi è ricaduta sulla Earth Island Institute responsabile del marchio SALVA DELFINO, scoprendo quanta poca affidabilità si cela dietro una certificazione di pesca sostenibile impossibilitata a reali e stretti controlli in quanto, da loro stessi dichiarato: “Non possiamo garantire che dietro tutte le scatolette di tonno con il marchio SALVA DELFINO non ne sia stato ucciso accidentalmente neanche uno, perché quando le navi sono nell’oceano nessuno le può effettivamente controllare”.
Stesso discorso per quanto riguarda il marchio MSC che troviamo praticamente su ogni scatoletta di tonno dei supermercati, dove il conflitto d’interesse si fa surreale dal momento che l’80% dei ricavati proviene proprio dal rilascio dell’etichetta alle aziende.

La seconda grande rivelazione scioccante è stata scoprire che il 46% della plastica nel Great Pacific Garbage Patch, il più grande accumulo marino di rifiuti, è composto da reti da pesca, che per definizione rappresentano l’oggetto più pericoloso per qualunque specie animale presente nei mari. La campagna massiccia sull’abolizione delle cannucce di plastica, definite uno degli elementi più dannosi e inquinanti della terra rappresentano appena lo 0,03% della plastica nell’oceano.

Perché si chiede il regista e inevitabilmente anche noi, viene offuscata in maniera così palese la verità? Perché gli interessi che circolano intorno alla lobby della pesca industriale, sono così potenti da influenzare la trasparenza degli stessi enti preposti al monitoraggio e alla supervisione. Ognuno degli intervistati ha manifestato disagio di fronte a domande di una semplicità quasi paradossale, come chiedere perché non espongono apertamente la pericolosità delle reti disperse in mare e l’emergenza che occorre applicare nell’agire sul problema. Alcuni a questa domanda hanno chiesto di spegnere le telecamere, interrompendo l’intervista.

Di fronte alla presa di coscienza del traffico di soldi e vite animali che ruota intorno a questa macchina inarrestabile emerge il terzo e più catastrofico elemento. Secondo alcune stime realizzate dai ricercatori, se non si inverte la rotta di questa mattanza massiccia, entro il 2048 gli oceani saranno svuotati della maggior parte delle loro forme di vita. Questo significa conseguentemente la lenta ma inesorabile estinzione del genere umano. I miei figli e tutti i loro coetanei bambini, avranno appena trent’anni.

Concludo tornando alla domanda presente nel titolo di questo articolo: ha senso avviare indagini pericolose, fare ricerche, ottenere rifiuti e minacce per realizzare documentari così forti e destabilizzanti per noi consumatori ingenui e all’oscuro della maggior parte delle dinamiche che regolano le filiere, gli allevamenti e la cattura dei prodotti che ci troviamo sul piatto? Può davvero un documentario di un’ora e mezza far vacillare le nostre certezze? Io credo di sì. Perché le immagini arrivano a scuotere dove le parole vacillano. Colgono di sorpresa, non hanno bisogno di intenzionalità da parte di chi le recepisce e mostrano la realtà senza possibilità di fraintendimenti.

Abbiamo bisogno di schiaffi, dove la letteratura attutisce irrompe l’immagine cruda, l’occhio languido di un animale morente, il sangue che imbratta le rive di rosso scuro dove decine di balene sgozzate hanno trovato la morte nelle Isole Faroe, dove ancora si definisce questa tecnica di pesca tradizionale “sostenibile”.
Non esiste una pesca su larga scala sostenibile e dobbiamo esserne tutti consapevoli.
Seaspiracy è un documentario crudele e necessario che va visto, va trattato nelle scuole, ci si deve indignare e fermare la mano un istante prima di prendere quei prodotti dallo scaffale del supermercato che abbiamo sempre ritenuto affidabili e regalarci il beneficio del dubbio.
I documentari d’inchiesta mostrano le realtà che non possiamo scoprire da soli e il lavoro di questi operatori del settore, in un mondo ideale, sarebbe valorizzato e protetto molto di più.

Basta che ognuno di noi convinca un’altra persona a guardare i loro lavori e si innescherebbe una catena virtuosa di consapevolezza e sicurezza intorno al loro stesso operato.

Permettiamogli di continuare a fare ciò che fanno. Il potere più grande è in mano al pubblico. Più persone accettano di non chiudere gli occhi e più scoperte cui stentiamo a credere diventeranno nomi, luoghi precisi, e realtà definite, contro cui indignarsi.

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