Tirocini, servizio civile, volontariato: quando il lavoro (spesso gratis) è sfruttamento

Negli ultimi anni in Italia, complice una crisi economica decennale, una sempre maggiore flessibilità e l’aumento della disoccupazione strutturale, sono comparse soluzioni che potremmo ritenere “tampone” al precariato e all’inattività lavorativa: il lavoro non retribuito o sotto retribuito. Secondo la sociologia del lavoro viviamo in una società dove siamo liberi ma obbligati a cercarci un lavoro, un pesante ossimoro che mina il concetto stesso della parola “libertà”, siamo liberi di dover lavorare, non è strano? In un mercato del lavoro sguarnito di offerte necessarie, sufficienti o all’altezza dei titoli di chi lo cerca (o forse non ne ha mai abbastanza?), l’ordinamento italiano ha pensato bene di estendere il servizio civile universale, i tirocini curriculari degli atenei e un lavoro extra-curriculare presentato a tutti gli effetti come volontariato ad orari settimanali che non lo rendono, in effetti, del semplice volontariato, a vari settori e servizi. Il servizio civile, per esempio, è un’ottima esperienza se svolta nel contesto e con le persone giuste, però è presentato come volontariato nelle definizioni ufficiali, invece secondo la mia opinione è un “lavoro volontario” con una retribuzione minima, è ritenuta una prima occasione lavorativa per tanti giovanissimi, ma neanche è concepita come contribuzione pensionistica. Negli ultimi tempi in qualsiasi comune italiano, anche il più periferico e spopolato, sono spuntati come funghi bandi di servizio civile negli ambiti più disparati: ciò per me non è sintomo di qualcosa di positivo. I bandi specifici locali non vengono curati attivamente dal Dipartimento del Servizio Civile di Roma (che si preoccupa solo di fornire linee guida uguali per tutti), sono male implementati, poiché spesso ci sono più parole su carta di quanto poi effettivamente si possa realizzare in presenza negli enti ospitanti, con le loro esigue risorse, i loro mezzi e le loro persone. Tanti volontari si ritrovano un po’ abbandonati a se stessi se non sono nella città giusta, col progetto giusto e con il servizio giusto: anche questa è l’altra faccia della medaglia, oltre la retorica mitizzante del servizio civile universale, che io ho svolto e ne conservo un bel ricordo oltre che una buona esperienza. Inutile aggiungere che le possibilità di consolidamento e assunzione nei luoghi dove si è svolto il servizio civile siano prossime allo zero.

Per i giovani alle prese con le prime esperienze lavorative, invece, il tirocinio curriculare è conosciuto e temuto (specie se gratis), tanto che spesso è affrontato con una mal celata tristezza, sopportato come fardello inevitabile. Nei luoghi del potere decisionale, i problemi legati ai tirocini non sono quasi mai contemplati, poiché è un tema nebuloso di cui spesso non si tiene conto nei ragionamenti di sistema sul mercato del lavoro; quelli – per intenderci – che guidano l’azione dei grandi partiti o dei sindacati e che coprono la quasi totalità della copertura giornalistica sui temi del lavoro. In Italia non esistono infatti rilevazioni, tanto meno un monitoraggio del Ministero dell’Istruzione, riguardo ai tirocini curriculari che solo raramente vengono retribuiti e presentano un problema simile al servizio civile: troppe progettualità e idee su carta che non tengono minimamente in considerazione la rete territoriale di possibilità e di spendibilità di questi tirocini curriculari che, per la legge italiana, non sono assolutamente da retribuire e nonostante in molte occasioni diventino una forza lavoro vera e propria, neanche sono riconosciuti come esperienze dalle aziende o dal mercato del lavoro: una sorta di semi-servitù legalizzata e gratuita. Il lavoro dunque diventa gratis come fosse volontariato. Nelle associazioni di volontariato ed enti no profit, i volontari sono persone che scelgono di spendere del tempo libero nell’aiutare il prossimo o una causa, non sono pagati, hanno già un altro o più lavori. Ora il volontariato è entrato nel mondo del lavoro, ma con orari e tempistiche che non sono da volontariato, appunto. In Italia oggi tante mansioni per le quali un tempo si pagava (lavoro a cottimo), riconoscendo il tempo speso a “faticare” o a lavorare per conto di qualcuno o qualcosa, sono divenute del mero e semplice volontariato. Nei paesi anglosassoni, volente o nolente se “il tempo è denaro”, il tuo tempo va retribuito e questo nel Bel Paese sembriamo essercelo scordato. Come sembriamo esserci scordati dell’importanza di dare delle possibilità più concrete ai giovani che si affacciano per la prima volta al mercato del lavoro e non possono avere chissà quale esperienza o bagaglio professionale. Il colmo della situazione italiana è che dopo uno studio universitario quinquennale si potrebbe finire a fare tirocini curriculari di ulteriori corsi di specializzazione (in inglese i “master”) totalmente gratuiti e precari, col rischio di meno valenza e nessuna retribuzione rispetto ad un servizio civile svolto magari da neomaggiorenni usciti dalle superiori.

Le università italiane, mi spiace dirlo, alimentano il circuito vizioso dei tirocini curriculari non retribuiti, attenendosi rigidamente alle disposizioni di legge senza metterle in discussione e tanti corsi di laurea e master non offrono valide opportunità di tirocinio che diventino poi un’opportunità di lavoro, ma solo l’ennesima operazione retorica in cui gli studenti vengono spinti ad aderire a progetti didattici o extra-didattici senza futuro, con orari pienamente lavorativi e senza vedere in molti casi un solo euro. Anche nei tirocini extra-curriculari (cioè fuori dai canali universitari), come ha illustrato l’Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro, nel periodo 2014-2017 la situazione non era rosea: solo un quarto dei tirocinanti era stato assunto dall’azienda ospitante entro sei mesi dalla fine del tirocinio. Pare quindi che le aziende italiane a volte addirittura formino i tirocinanti con fatica personale che poi non assumono, un controsenso se non fosse che invece i dati seguono una logica che inquadra una tendenza italiana; ovvero quella di adibire sempre più spesso posizioni nel proprio organico interamente a tirocinanti (i facchini gratis). Questo non rispetta la normativa, che vieta l’uso del tirocinio per attività che sarebbero appannaggio del lavoro dipendente e retribuito.

All’inizio di questo anno nel Parlamento europeo è stata presentata una risoluzione che esplicitamente e per la prima volta “condanna la pratica dei tirocini non retribuiti quale forma di sfruttamento del lavoro dei giovani e una violazione dei loro diritti” e invita la Commissione europea all’adozione di una disciplina comune negli Stati membri per garantire un’equa retribuzione. La totale messa al bando, come proposto da un emendamento presentato dal gruppo dei Socialisti e Democratici, è stata respinta per il voto contrario della destra e dei liberali. La difficoltà maggiore è l’armonizzazione tra i vari paesi, e i primi problemi sorgono nel definire cosa sono i tirocini. I momenti di attività lavorativa in corso di formazione abbiamo capito che sono diversi: curricolari, extracurricolari, professionali, ma non sono mai dai contorni precisi se non nella burocrazia di chi li formula. In Italia, anche per gli studenti delle scuole superiori sono previsti periodi di lavoro in azienda, come l’alternanza scuola-lavoro e i percorsi di avviamento professionale; ma in alcuni casi si sono rivelate pratiche ibride e poco regolamentate, messe in discussione dalla comunità studentesca, con anche incidenti e poca attenzione dei datori di lavoro. Brando Benifei, capodelegazione per il Partito democratico nel Parlamento europeo sostiene che la Commissione europea potrebbe presentare una legge che vincoli gli Stati membri a introdurre forme di retribuzione obbligatorie per i giovani durante la formazione, ma sarebbe un processo che richiederebbe altri anni e altro tempo, mentre tanti vogliono risposte immediate e non ne vedranno. Forse non sanno neanche di volerle o di doverle pretendere.

Lavorare gratis è la più grave forma di sfruttamento, a qualsiasi livello, e non dovrebbe più essere legale.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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