Tre saggi per valutare il proprio livello di libertà

Esistono trame oscure che legano i libri tra loro; scelte apparentemente casuali che contengono pezzi di un’unica domanda.

È stato questo il caso che ha legato tra loro questi tre saggi, che mi hanno portato a chiedermi: quanto sono realmente libera nel mio contesto sociale?

Tutto è partito dal libro di Ameya Gabriella Canovi edito da Sperling & Kupfer: Di troppa (o poca) famiglia. Ne avevo sentito parlare su Instagram e mi aveva incuriosito subito. 

“Tutti noi, che ci piaccia o no, siamo anche la somma delle storie di chi ci ha preceduto.” E da questa affermazione ci addentriamo con la psicologa all’interno di un viaggio fatto di testimonianze, ricordi personali dell’autrice e suggerimenti pratici per indagare e ricostruire la propria storia famigliare e comprendere meglio l’eredità emotiva che ognuno porta con sé.

Tra i vari temi di riflessione ho trovato molto interessanti soprattutto il concetto di “Mito famigliare” e di “Mandato”.

“Chi nasce”- scrive Canovi- “eredita, insieme ai geni degli occhi azzurri o verdi o marroni, del colore della pelle e della tipologia dei capelli, anche una prescrizione identificativa della propria famiglia, sotto forma di mito”.

In sostanza una sorta di imperativo che serve a identificare il nucleo e ha a che fare con i suoi valori fondamentali, tramandati da generazioni. Può essere il mito del dovere e del lavoro, quello del “siamo una famiglia di vincenti”, o al contrario “siamo una famiglia sfortunata”, può avere a che fare con l’importanza di non chiedere mai aiuto a nessuno o con il valore dello stare sempre insieme, fidandosi poco del mondo esterno. Ho fatto solo alcuni esempi, ma i miti famigliari sono molti e sfaccettati, fondamentali per riconoscere il proprio “mandato” all’interno di essa. Il mandato consiste in una sorta di missione che noi riceviamo, spesso in maniera ben poco consapevole e che condiziona la nostra età adulta sia nella sfera emotiva sia nelle scelte quotidiane. 

Spesso ci portiamo sulle spalle zavorre pesantissime, contenenti traumi transgenerazionali, sensi di colpa, bisogni affettivi, insicurezze e responsabilità, forgiateci addosso come una vera e propria identità costitutiva. Riconoscerle e affrontarle, sostiene l’autrice, ci può permettere di trasformare quelle ferite in risorse, liberandoci. 

Dalla famiglia alla coppia il passo è breve ed ecco che dalla pila di volumi ancora da leggere, accatastati sopra il mio comodino, vedo spuntare un titolo: “Ancora bigotti” di Edoardo Lombardi Vallauri.

Questo piccolo pamphlet, edito da Einaudi, riesce in meno di centocinquanta pagine a condensare  riflessioni sociologiche potentissime. La tesi di Vallauri parte dal fatto che “La morale sessuale sia una delle cose in cui la nostra civiltà è progredita di meno negli ultimi 4000 anni. Tutte le coppie ostentano una stretta monogamia, e ogni contatto con terzi è considerato un tradimento che può distruggere il rapporto. Anche i giovanissimi vivono sostanziali matrimoni di reciproca sorveglianza. E mentre tutti si dichiarano libertari , di fatto si danneggia continuamente la reputazione delle persone a partire dai loro comportamenti sessuali”.

La teoria sociologica di Vallauri è molto chiara e diretta: atei o praticanti, single o accoppiati da decenni, siamo tutti stipati dentro una pressa di giudizio morale, che ha trovato spazio e possibilità di diffondersi attraverso la religione, per distaccarsene poi come un’etica sociale alla quale tutti facciamo riferimento. L’impossibilità di condividere i propri reali bisogni biologici e affettivi, in quanto essere umani, spinge a compiere le stesse azioni, che tanto ripudiamo, di nascosto, tradendo realmente in questo contesto la fiducia dell’altra persona. 

La provocazione, estremamente logica dell’autore, è che di fronte a realtà che di fatto esistono comunque, nonostante i sensi di colpa che la morale ci impone, si potrebbe provare a ipotizzare altre possibilità di dialogo e trasparenza, in cui ci sia lo spazio e la fiducia per tutti di vivere liberamente le proprie pulsioni, senza per questo distruggere storie d’amore decennali, solide e spesso molto funzionanti. In questa ottica utopica di apertura e grande libertà, la possibilità di confrontarsi con altre persone permette anche di riconfermare spesso la propria relazione primaria, rivalutandone tutti gli aspetti positivi, con consapevolezza e senza ipocrisia. Come ogni relazione affettiva dovrebbe essere del resto, libera di continuare a scegliersi perché libera di poter scegliere altro.

Il salto dalla morale al corpo era inevitabile e cosi mi sono ritrovata a chiudere questa triade con il saggio “Campo di battaglia” di Carolina Capria, edito da Effequ.

I corpi femminili non appartengono fino in fondo alle donne che li abitano, ma alla società, che ancora li strumentalizza a fini politici e culturali. Ogni aspetto della vita di una donna, dal suo ruolo sociale a quello più privato passa attraverso il giudizio sulla sua fisicità. Il nostro corpo è stato per millenni oggetto di studio di menti maschili che hanno tentato di interpretare e catalogare ogni sua parte dentro definizioni sminuenti, folli o più spesso semplicemente false: dal ciclo mestruale, all’isteria, passando per la gravidanza fino al diritto all’aborto, ci è stato sempre spiegato come era giusto agire e rappresentarci. Alla vittima di violenza, tutt’ora, non viene risparmiato il beneficio del dubbio, attribuendole presunte colpe legate al suo abbigliamento e al suo stesso corpo, che da abusato diventa oggetto colpevole di troppa esposizione, troppa libertà.

Dalla ministra, all’attrice, passando per le intellettuali e le scienziate, nessuna è esente dal giudizio sul suo corpo e dall’uso che ne fa per comunicare ed esporsi. 

Sono tanti gli esempi riportati dall’autrice, nei quali tutte possiamo riconoscerci. Raccolti insieme in un solo saggio sono demoralizzanti, ma efficaci. 

Non credo che i libri portino risposte definitive, né illuminanti, ma indubbiamente spianano la strada del senso, quella che vogliamo percorrere per capire meglio i nostri tempi e noi stessi. Questi tre validi esempi lo confermano.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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