In un’epoca di mobilità globale e rinnovato interesse per le proprie radici (proprio in questi giorni a Bruxelles, ad esempio, si è tenuto l’evento “Cucina e Radici: Le Delizie Regionali Italiane” organizzato dall’Associazione Cuochi Italiani in Belgio), la cittadinanza per discendenza sta emergendo, in Italia, come un potente tema di discussioni divisive della politica e della società tutta.
A far discutere è il decreto sancito dal Governo “Meloni” lo scorso 28 marzo, e poi votato in via definitiva dal Parlamento italiano il 20 maggio. Se per la legge del 1992 era sufficiente che almeno uno dei genitori fosse cittadino italiano o che si avesse un antenato ancora in vita al momento della proclamazione del Regno d’Italia nel 1861 per poter acquisire la cittadinanza italiana, con la nuova normativa, la cittadinanza italiana sarà automaticamente riconosciuta a tutte le persone nate all’estero che abbiano almeno un genitore, un nonno o una nonna nati in Italia, oppure in possesso della cittadinanza italiana al momento del decesso.
Sbotta il deputato Pd Toni Ricciardi, cittadino italiano e elvetico, e se la prende anche Maria Chiara Prodi, segretaria generale del Consiglio generale degli italiani all’estero (Cgie), la quale spiega all’Espresso : «è come se la cittadinanza diventasse un ‘gene recessivo’, che viene smarrito se i genitori non hanno la cittadinanza italiana ‘esclusiva’».
Ma cosa succede nel resto dell’Europa? Siamo davanti alla “solita” anomalia all’italiana?
Compiendo una ricerca delle norme di base, si vede subito come in tutta l’Unione Europea, numerosi paesi offrano una via alla cittadinanza per coloro che possono dimostrare di discendere da un cittadino nazionale — talvolta risalendo fino ai bisnonni — ma non tutti guardano al passato con lo stesso sguardo.
Il principio fondamentale della cittadinanza per discendenza è semplice: se i tuoi genitori, nonni, o in alcuni casi perfino i bisnonni erano cittadini di un determinato paese, potresti avere diritto a richiedere quella cittadinanza. Tuttavia, i dettagli variano ampiamente da paese a paese.
Partiamo con l’Ungheria, che mantiene una delle politiche più generose d’Europa, senza limiti generazionali prefissati. Se puoi dimostrare una discendenza ungherese — generalmente tramite un genitore o un nonno — potresti avere diritto alla cittadinanza.
L’Irlanda invece consente di richiedere la cittadinanza attraverso un nonno nato sull’isola, a condizione che la nascita venga registrata nel Foreign Births Register. Anche Polonia, Bulgaria e Lituania accettano richieste che risalgono ai bisnonni, purché siano soddisfatte condizioni come la continuità della cittadinanza e la disponibilità di documentazione adeguata. Paesi come Germania, Austria, Danimarca, Regno Unito e Belgio generalmente limitano il diritto alla cittadinanza per discendenza alla prima generazione — ovvero a chi ha almeno un genitore cittadino al momento della nascita. La Germania fa un’eccezione per i discendenti di vittime del nazismo a cui fu revocata la cittadinanza, riconoscendo un obbligo storico verso questa categoria.
In Finlandia, se un bambino nasce fuori dalla Paese da genitori finlandesi, può ottenere la cittadinanza per discendenza, ma se non risiede mai in Finlandia e non dimostra un legame con il paese entro i 22 anni, può perdere la cittadinanza. Il Portogallo ha introdotto la necessità di dimostrare un “legame effettivo” con il paese — uno standard introdotto per evitare abusi, mentre la Spagna ha prorogato la cosiddetta “Ley de Nietos”, che consente ai discendenti di esiliati spagnoli di presentare domanda fino al 2025.
Insomma, mentre l’Europa si confronta variagati parametri di cittadinanza per discendenza, che rimane certamente uno strumento tramite il quale i diritti legati all’eredità e le responsabilità della cittadinanza trovano diversi bilanciamenti.
Nel 2010 ho scritto il mio primo saggio scientifico dal titolo “Normative Discussions on European Identity: A Puzzle for Social Science?“, che potremmo tradurre con “Discussioni normative sull’identità europea: un enigma per le scienze sociali?”. Praticamente affrontavo differenti punti di vista concettuali dei tre principali approcci normativi riguardanti ciò che l’identità europea dovrebbe/potrebbe essere. Niente di più desueto, verrebbe da scrivere ora. Con il dibattito che si concentra prevalentemente sulle questioni nazionali legate alla trasmissione della cittadinanza italiana, le sfide e le opportunità offerte dalla cittadinanza europea passano in secondo piano, nessuno ne parla (più) nell’area pubblica. Ma così facendo non si rischia di offuscare e dimenticare di discutere anche di cosa significhi oggi appartenere a una comunità più ampia, europea, e di come le identità nazionali e europee si intersechino e si influenzino reciprocamente?
Stupisce – o forse no – il flebile dibattito politico, rispetto al poleverone in corso – che riguarda lo ius soli o lo ius scholae, forme che rispondono alla realtà di milioni di giovani cresciuti, educati e integrati nei Paesi in cui vivono. Continuare a privilegiare modelli di cittadinanza basati esclusivamente sulla discendenza pare un dibattito miope perché l’identità oggi non può più essere definita solo “dal sangue” o, se vogliamo, da legami di parentato stretto, ma va ripensata in termini di appartenenza sociale, culturale e civica. Parlare di cittadinanza per chi nasce o studia in un Paese europeo significa riconoscere diritti concreti e costruire una società più giusta e inclusiva, anziché perpetuare logiche esclusivamente etniche o anacronistiche. Una democrazia matura non può continuare a escludere chi già partecipa attivamente alla vita del Paese. Serve coraggio politico per riconoscere che l’identità si costruisce anche attraverso la condivisione di esperienze, istruzione e valori, non solo per eredità.