Un viaggo nel mondo visionario di Han Kang

Per quanto inflazionata, la frase: “Leggere ti porta altrove”, risulta più vera che mai, soprattutto quando si scoprono autrici come Han Kang, che ha vinto il premio Nobel per la letteratura nel 2024. In questo caso specifico si può davvero parlare di un mondo altro, quello in cui la scrittrice sud coreana conduce il lettore. Indubbiamente le influenze culturali e stilistiche del suo paese caratterizzano la sua scrittura altamente simbolica e questo si avverte inevitabilmente quando si decide di approfondire la conoscenza di autori e autrici fuori dalla nostra bolla occidentale.

È successo sicuramente per molti con il noto scrittore giapponese Haruki Murakami. Si percepisce una sorta di substrato di partenza differente dal nostro immaginario più immediato, un codice espressivo fatto di immagini, sguardi e suggestioni che inizialmente ci destabilizzano un po’, come trovarsi per la prima volta in un paese molto lontano e diverso dal nostro.  Un misto di timore e attrazione ci spingono timidamente a entrare e una volta superata ogni reticenza ci si affida totalmente, accettando di essere noi lo straniero che per quanto si sforzi sa di non poter comprendere veramente fino in fondo quello che ci viene raccontato.

Questa è stata la sensazione che ho provato durante la mia full immersion nei libri di Han Kang. Ho letto, in ordine cronologico di uscita, “La vegetariana”, “L’ora di greco” e “Atti umani”, perché volevo farmi anch’io un’idea più chiara su questa scrittrice tanto enigmatica e discussa. Devo ammettere che è stata un’esperienza di lettura intensa ma non facile.

Nonostante la loro brevità infatti, ho spesso procrastinato e soprattutto la sera, prima di andare a dormire, che è il momento della giornata in cui leggo di più, non sono riuscita a proseguire, nel timore di non riuscire ad addormentarmi o influenzare i miei sogni verso la rielaborazione delle immagini più crude o inquietanti.

Ma non si tratta solo della crudezza dei dettagli raccontati in certe scene. Leggere Han Kang ti richiede uno sforzo ulteriore; quello di accettare di non ricevere le spiegazioni che vorresti, avanzando a tentoni nel buio e accontentandoti di piccoli scorci luminosi, frammenti di una storia che rimane scollegata e lacunosa. Eppure, o forse grazie a questa sensazione di disagio, data dall’assenza di appigli sicuri, dall’incapacità di prevedere cosa accadrà dopo, il coinvolgimento emotivo è fortissimo e il senso di orrore, fastidio, incredulità, paura, risuonano a lungo.

Una delle prime osservazioni che salta subito all’occhio è che “La vegetariana” e “L’ora di greco” sono accomunati da uno stile onirico, a tratti surreale, altamente simbolico. Molto diverso invece lo stile di “Atti umani” in cui prevale un forte realismo, molto più dettagliato, con una scrittura più scorrevole e uno sviluppo narrativo lineare.

È interessante notare gli approcci diversi che ha voluto sperimentare la scrittrice e come questo impedisca di poterla davvero definire all’interno di uno stile distintivo.

“La vegetariana” racconta di una giovane donna sposata con un uomo mediocre e sprezzante, che sembra averla scelta esclusivamente per il suo temperamento remissivo, al limite della totale noncuranza. Tutto procede relativamente bene, dentro un matrimonio e un’esistenza ripetitiva e tranquilla, finché la donna, dopo aver fatto un sogno, decide di non mangiare più carne. La notizia non viene presa bene né dal marito, incredulo e irritato, né dal resto della famiglia di lei. Nella cultura gastronomica coreana la carne rappresenta ancora un elemento centrale e imprescindibile, per questo la sua presa di posizione appare così incomprensibile da chi la circonda.

Una delle scene più forti a questo proposito è sicuramente quella in cui, durante un pranzo di famiglia a casa dei genitori di lei, il padre tenta con violenza di infilarle un pezzo di carne di maiale in bocca. L’autrice riesce a farci sentire tutto il disgusto verso quel cibo e la sensazione di abuso che la protagonista sta subendo.

Al lettore però non è dato mai di sentire dalla voce della protagonista le ragioni di questo suo atto tanto rivoluzionario perché il romanzo non è raccontato dal suo punto di vista, a parte nelle descrizioni dei suoi sogni, sempre però altamente simbolici. Noi possiamo accedere alla storia solo attraverso i punti di vista del marito, del cognato e della sorella e in tutti e tre i casi si percepisce sempre un senso di distanza e di totale mancanza di empatia verso la vegetariana, oltre a un “agire” sul suo corpo, chi per abusarne, chi per tentare di salvarla, al quale la protagonista reagisce sempre in maniera estremamente passiva.

È come se la sua scelta, che poi gradualmente diventa sempre più estrema portandola a non mangiare più nulla, rappresenti un tentativo di elevarsi al di sopra dei bisogni corporei, separando l’anima da un corpo che di fatto non le appartiene mai, neppure di fronte al diritto di lasciarlo morire.

Trapela oltre la metafora del suo doloroso tentativo di trasformarsi in un vegetale, una grande denuncia sociale, quella appunto della mancanza di libertà delle donne di decidere del loro stesso corpo ed è estremamente interessante vedere come l’autrice abbia voluto trattare un tema così attuale e reale attraverso una storia tanto simbolica e visionaria.

Anche nel “L’ora di greco” ci troviamo di fronte al racconto di due solitudini inevitabili e anche questo aspetto accomuna i due romanzi. Sembra come se i protagonisti di queste due vicende vivano dentro delle bolle invisibili che gli permettono di portare avanti le loro esistenze ma senza entrare veramente in contatto con l’altro, mostrando le proprie vulnerabilità e paure e facendo crescere nel lettore un senso di impotenza e compassione infinite.

È questo il caso dei due protagonisti di “L’ora di greco”: un giovane insegnante di greco antico, tornato in Sud Corea dopo essere cresciuto in Germania e una sua studentessa.

Entrambi sono legati da impedimenti fisici destinati ad alienarli dal mondo. Lui sta perdendo progressivamente la vista e lei, a causa di un trauma, non può più parlare. I due attraverso questo espediente del corso di greco, spazio prezioso per entrambi, scopriranno un ponte che gli permetterà di trovarsi in un luogo in cui persino la vista e la parola sono superflue. Tutto avviene attorno allo studio di una lingua di fatto morta, che non serve più ad esprimersi, eppure ricca di significati multipli e nascosti. La scrittrice sembra suggerirci come dietro all’apparente impossibilità di comunicare si celino strade e possibilità sconosciute, che toccano piani di comprensione umana più profondi e ai quali tutti possono accedere, anche due esuli apparentemente senza speranza come i due protagonisti di questa storia struggente.

Infine con “Atti umani” l’autrice ci scaraventa senza pietà nel baratro della sopraffazione violenta e autoritaria, dove il potere sembra essere solo più un sadico strumento per annientare la libertà collettiva. Han Kang ci riporta nel 1980 quando a Gwangju, sua città natale, in seguito al colpo di stato di Chun Doo-hwan ci fu una rivolta popolare, guidata soprattutto da studenti universitari che con estremo coraggio e per lo più disarmati, tentarono di far sentire la voce del popolo che non intendeva sottomettersi alla legge marziale di un despota. La reazione repressiva da parte delle autorità e delle forze dell’ordine fu estremamente violenta e la scrittrice non ci risparmia nessun dettaglio delle brutali torture che subirono le persone arrestate dopo le rivolte. Ma non si sofferma soltanto sulla violenza inaudita e incomprensibile dello Stato. C’è una profonda riflessione sull’esistenza dei sopravvissuti, di come è possibile ritrovare un senso dopo aver subito tali livelli di umiliazione fisica e psicologica  con una crudeltà tanto inaudita.

Ci si chiede quali siano questi “atti umani” del titolo. Credo esistano due possibilità: accettare che l’essere umano sia per sua natura prevaricatore, oppressivo e violento e che questo sia l’unica spiegazione a giustificare gli atti insensati che compie. Oppure si può optare per quei pochi sprazzi di speranza che emergono dalla forza di una collettività, che si unisce e resiste in nome di una libertà più importante della stessa esistenza di un singolo. A differenza degli altri due libri infatti qui i personaggi, seppure tutte vittime di un potere che li sovrasta, non sono mai soli come nei libri precedenti. Ogni storia è collegata alle altre, così come ogni nome torna, viene ripreso e raccontato da altri punti di vista. Emerge forte un senso di pietà reciproca e la percezione che forse i veri atti umani sono quelli che uniscono le persone per un bene comune superiore e che perpetuano il ricordo della resistenza e del sacrificio del singolo.

Se avete cuori fragili come il mio, leggere Han Kang non sarà un’esperienza leggera. Ma più rifletto sulla sua scrittura più emerge la complessità dei suoi messaggi e delle sue modalità espressive. È un mondo che rimane addosso, il suo, potente e visionario. Quindi, con un po’ di preparazione psicologica, non posso che consigli di intraprendere anche voi questo viaggio.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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