Catia Porri, bambina nascosta in Svizzera: quanti altri come lei?

Catia è una bambina, serena e spensierata, nella Firenze di fine anni ’50. Figlia unica, vive con il padre, artigiano e saldatore, e la madre, in casa del nonno materno, vedovo da tanti anni, nel quartiere di Soffiano. L’appartamento si trova vicino alla Casa del Popolo, ed è lì che la piccola Catia trascorre gran parte del suo tempo. Giochi, incontri, riunioni davanti alla televisione, quando c’era una trasmissione importante da vedere.

Le cose cambiano all’inizio degli anni ’60, quando il nonno, dopo essersi risposato, si trasferisce a Siena e il padre ha dei problemi di lavoro. La famiglia Porri decide allora di trasferirsi a Zurigo, dove già si trovano gli zii di Catia: la zia aiuterà entrambi i genitori a trovare lavoro: come operaio specializzato il padre, in una fabbrica di cappelli la madre.

Il padre è il primo ad arrivare a Zurigo, nella primavera del 1962, e affitta una stanza in un appartamento in condivisione, che accoglierà Catia e sua madre al loro arrivo, nel luglio dello stesso anno. Per la dodicenne Catia la nuova città sembra il paradiso: il lago, il sole e il cielo azzurro, le montagne in lontananza… Ma la realtà si rivelerà presto ben più dura.

I problemi cominciano con l’inizio della scuola: Catia non conosce ancora la lingua, e quindi fa fatica a inserirsi e a seguire le lezioni. I compagni di classe la emarginano, anche gli altri italiani che, nati e cresciuti lì, parlano bene la lingua locale e si coalizzano con i bambini svizzeri contro la nuova compagna, mettendo in atto quelli che oggi definiremmo azioni di bullismo.

Ma il peggio arriva pochi mesi dopo, quando la famiglia Porri riceve una lettera da parte della polizia per gli stranieri: Sehr geehrter Herr Porri…

Nella lettera c’è scritto che Catia deve lasciare la Svizzera, perché i genitori, non essendo in possesso di un permesso di soggiorno almeno annuale, non hanno il diritto di tenere la figlia con sé. Il visto di Catia, che aveva la durata di soli 6 mesi, sta per scadere e la bambina deve abbandonare il Paese; potrà tornare soltanto dopo 6 mesi, con un visto turistico.

Catia Porri

È in quel momento che comincia la clandestinità, con Catia costretta a nascondersi, prima nella stanza dell’appartamento in condivisione, poi in una stanza di una mansarda in un edificio situato in uno dei quartieri ricchi di Zurigo, dove i genitori avevano affittato due stanze, un tempo assegnate alla servitù, dai nobili che vivevano nei piani inferiori. Pericolosissimo, per Catia, uscire dalla stanza, perché potrebbe essere vista dagli altri inquilini della mansarda. Ancora più pericoloso camminare per la stanza, perché i passi potrebbero essere uditi dagli abitanti del piano di sotto. Ogni volta, un viaggio ufficiale verso l’Italia, per ottenere  il timbro di espatrio della Polizia elvetica, e poi il rientro in Svizzera, nascosta nel cofano dell’Alfa rossa dei genitori. Fino al successivo visto turistico della durata di sei mesi…

Catia ha raccontato la sua esperienza a Marina Frigerio, che l’ha inserita nel suo libro Bambini proibiti (ed. Il Margine), insieme a tante altre testimonianze su quella che resta una ferita sanguinante per la Svizzera, sanguinante perché i bambini nascosti potenzialmente esistono tuttora: sono i figli di coloro i quali hanno, oggi, un contratto stagionale e pertanto non hanno il diritto di portare la famiglia con sé. 

Non appena i genitori ricevono il permesso annuale, arriva per Catia la libertà: finalmente può andare in giro senza paura, può incontrare persone, intessere nuovi rapporti di amicizia, ma le difficoltà non sono certo finite. A scuola, Catia viene inserita in una classe differenziale, una sorta di parcheggio per due anni. Fuori dalla scuola, le discriminazioni contro gli Italiani sono continue (qualche anno dopo ci sarebbe stato il cosiddetto”referendum Schwarzenbach”, primo dei tanti referendum di matrice xenofobica, brillantemente raccontato da Concetto Vecchio nel suo libro Cacciateli!), con i luoghi comuni che purtroppo resistono al tempo e sono attuali ancora oggi (anche se in Svizzera non sono più rivolti agli Italiani, perché altri bersagli sono stati identificati, mentre in Italia sono rivolti meno di prima ai meridionali terroni, perché nuovi bersagli sono stati individuati): gli Italiani vengono a rubarci il lavoro, gli Italiani ci rubano le nostre donne, agli Italiani vengono assegnati gli appartamenti più economici perché hanno molti più figli, gli Italiani non vogliono lavorare… Vi ricorda qualcosa, vero?

Dopo la scuola, Catia va alla ricerca di un apprendistato, ma le cose si fanno complicate anche qui. Spesso le vengono preferiti gli studenti svizzeri, o comunque il permesso annuale continua a esserle di ostacolo. Arriva seconda a un concorso come vetrinista, concorso che prevede l’offerta di lavoro ai primi tre classificati, ma a Catia il lavoro non viene dato, perché le manca il permesso di soggiorno di tipo C. La giovane fiorentina però non si arrende: passa l’esame ed entra nel corso preparatorio per la scuola d’arte, poi supera l’esame per entrare alla scuola di fotografia, che però, senza permesso C, potrà frequentare solo in futuro. Riesce a ottenere un apprendistato presso uno studio fotografico, che purtroppo non completa perché i due soci fondatori si separano, di conseguenza manca il diploma in fotografia.  Nel 1971, giovanissima, si sposa con uno svizzero e poco dopo ottiene la cittadinanza elvetica. Grazie al nuovo passaporto, riesce  a trovare lavoro nei laboratori fotografici, e poi anche in televisione. Catia deve comunque continuare a combattere per ogni cosa, in quanto persona di origine italiana e in quanto donna; ricordiamo infatti che solo nell’anno in cui Catia si sposa le donne svizzere conquistano finalmente il diritto di voto, e che solo nel 1981 la parità uomo-donna verrà inserita nella Costituzione elvetica.  

Nonostante tutte queste disavventure, Catia non si è mai arresa, e ha trascorso l’intera sua vita impegnandosi per l’inclusione di tutte le persone, a partire dalle diversità di ognuno, considerate come ricchezza personale. Ha raccontato spesso la sua storia, diventano inevitabilmente una dei portabandiera della vicenda dei bambini nascosti.

Catia ama dire che la sua storia, in sé, non è tanto importante, perché il passato è passato, ma esperienze come la sua devono servire da lezione per il presente e il futuro. Basti pensare ai tanti “sans papiers”, non solo della Svizzera, ma di tutto il mondo. Proprio per questo si è sempre attivata contro ogni forma di discriminazione. È attualmente parte dell’associazione “Tesoro”, che si dedica alla difesa degli interessi delle famiglie che hanno subito le conseguenze dello “statuto dello stagionale” in Svizzera. Uno degli obiettivi di questa associazione è quello di fare emergere, con  testimonianze, il tema della violazione dei diritti umani che, attraverso la legge, hanno impedito il ricongiungimento delle famiglie. 

Questo blog darà voce a tutti gli ex bambini nascosti che vorranno testimoniare la propria esperienza. 

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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