Identità plurali

“Da quando ho lasciato il Libano nel 1976 per trasferirmi in Francia mi è stato chiesto innumerevoli volte, con le migliori intenzioni del mondo, se mi sentissi “più francese “o “più libanese”. Rispondo invariabilmente: l’uno e l’altro (…) Ciò che mi rende come sono e non diverso è la mia esistenza fra due Paesi, fra due o tre lingue, fra parecchie tradizioni culturali. È questo che definisce la mia identità”

 Questa affermazione dello scrittore Amin Maalouf rispecchia in parte la mia esperienza; ho un rapporto ormai quarantennale con la Svizzera e anch’io faccio ormai   fatica a definire la mia identità, utilizzando lo schema rigido di una singola appartenenza nazionale.

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Arrivai a Zurigo, fresco di studi universitarie e alle prese con le prime esperienze professionali. Completamente digiuno della lingua tedesca, mi cimentai da subito con un’ardua sfida linguistica, culturale e lavorativa; mi aspettava un lungo periodo di precariato che però coincise con una svolta decisiva nella mia vita sentimentale che naturalmente mi diede una spinta importante.

La diffusa presenza della lingua italiana rappresenta per chi viene dall’Italia un aspetto ambivalente; come lingua nazionale e per di più parlata da un consistente numero di immigrati permette di vivere, soprattutto in una città come Zurigo, in una confortante bolla in cui non è necessario nemmeno più di tanto avvicinarsi al resto della realtà esterna in cui tuttavia si stenta a inserirsi.

La mia attività lavorativa si è svolta sempre in istituzioni scolastiche italiane della Svizzera tedesca in cui operavano   anche docenti tedescofoni, spesso in possesso di conoscenze linguistiche della lingua italiana e desiderosi di sfoggiarle.

Così mi era possibile trascorrere intere giornate senza nessuno sforzo linguistico ma al tempo stesso in una condizione di estraneità rispetto a gran parte del mondo circostante.

In realtà questa è la dimensione in cui sono vissuti e tuttora vivono molti connazionali, soprattutto delle generazioni emigrate in Svizzera a partire dagli anni Sessanta; esse   hanno rappresentato un po’ “le vite di scarto” del miracolo economico di quegli anni in Italia e in compenso hanno contribuito a far ricco il Paese ospitante, arricchendosi in fondo anch’essi non solo economicamente anche se spesso a prezzo di tante sofferenze.

La mia curiosità, favorita anche dalla fortuna di aver acquisito un sufficiente bagaglio culturale mi ha salvato dal chiudermi in un ghetto e di aprirmi alla realtà locale senza perdere i contatti con un pezzo d’Italia.

Questo è stato il periodo dei corsi di tedesco e degli sforzi di decifrazione di ogni aspetto linguistico quotidiano che la realtà mi presentava.

Quando finalmente mi sono sentito in condizione di spiccicare due parole nel nuovo idioma si è presentato un nuovo problema; il dialetto svizzero- tedesco.

So già che i linguisti mi rimprovereranno l’uso del termine “dialetto” per definire questa varierà della lingua tedesca che praticamente tutti qui usano quotidianamente nel parlare ma che non viene praticamente usata come lingua scritta. Così i miei primi sforzi linguistici nella lingua di Goethe si scontravano con la realtà della presenza ingombrante di questo suo parente non troppo stretto. La presenza di questo elemento linguistico e cultuale è un aspetto a cui gli svizzeri tedeschi attribuiscono una grande importanza;  in un Paese in cui anche fra i cittadini svizzeri esiste un’alta percentuale di persone che hanno un’origine straniera questo può talvolta costituire  una barriera che divide i“veri svizzeri” da coloro che vengono un po’ spregiativamente indicati, proprio per la loro componente originaria straniera come “svizzeri di carta” cioè tali solo grazie all’attestazione dei documenti d’identità. Come si vede i costruttori di muri identitari sono attivi ovunque e questo suona tanto più strano in un Paese per sua natura multilinguistico e multiculturale.

Ancora oggi non ho una sufficiente dimestichezza con lo svizzero- tedesco (o sarebbe meglio dire con lo zurighese visto che nei vari Cantoni germanofoni esistono differenze linguistiche non di poco conto); la mia comprensione passiva è aumentata ma non mi sforzo nemmeno di avere una competenza attiva che vivrei come artificiale.

In realtà in città tutti parlano e comprendono il tedesco standard che però per molti rappresenta una forzatura, soprattutto nelle situazioni più informali della vita quotidiana.

Ho attraversato periodi di amore-odio verso il mio nuovo Paese e in modo corrispondente verso l’Italia, fino a raggiungere un equilibrio accettabile.

Il conseguimento della cittadinanza svizzera, avvenuto dopo molti anni, non è stato un fatto formale ma ha costituito un momento importante di nuova appartenenza; le convocazioni per scadenze elettorali quattro volte all’anno, che sono una nota caratteristica della democrazia diretta (o meglio semidiretta) elvetica mi motivano a un interesse costante per le vicende interne che sono molto meno   banali di quanto diffusi luoghi comuni su questo Paese lascerebbero pensare. La vicinanza all’Italia e i nuovi mezzi di comunicazione mi permettono d’altra parte un contatto continuo con l’Italia e al tempo stesso un distacco da essa. Quando presi in mano per la prima volta la mia nuova carta d’identità svizzere mi colpì il fatto che come luogo di origine (o di attinenza in burocratese) venisse indicato non il mio luogo di nascita ma quello del luogo in cui avevo acquisito la cittadinanza, quasi a voler indicare in modo un po’ forzato una nuova nascita e una nuova identità unica.

La doppia appartenenza a mondi linguistici e culturali diversi si è insinuata dentro di me in modo inavvertibile e ha forgiato o in parte modificato la mia personalità e i miei comportamenti.

Rifuggo dalle esasperazioni nazionalistiche e faccio un po’ fatica ad entusiasmarmi allo sventolio di una bandiera nazionale o non sono solito mettere una mano sul cuore quando risuona un l’inno nazionale italiano o quello svizzero.

Italia e Svizzera presi nel loro insieme mi sembrano realtà un po’ astratte mentre mi sento legato alla mia città italiana di provenienza e a quella svizzera in cui vivo.

Più che il concetto di patria, magari declinato al plurale mi si adatta quello tedesco di Heimat, inteso come quell’insieme di relazioni e di stati affettivi che mi legano a queste due città e ai rapporti umani che ho creato con alcune delle persone che ci vivono.

Insomma anche se in me la componente italiana, per motivi biografici risulta tutto sommato prevalente, una dose massiccia di “svizzeritudine” fa parte della mia identità, fatta  come quella di tutti, di tante diverse appartenenze.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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