Inglese: nuovo latinorum?

“Quella sera partimmo John, Dean e io sulla vecchia Pontiac del’55 del padre di Dean e facemmo tutta una tirata da Omaha a Tucson: porco cane!  E poi traduci in italiano e in italiano dici: ‘Quella sera partimmo sulla vecchia Fiat 1100 del babbo di Giuseppe e facemmo tutta una tirata da Piumazzo a Sant’Anna Pelago’. Non è la stessa cosa: gli americani ci fregano con la lingua”

Nel suo primo album del 1967 Francesco Guccini introduceva un suo pezzo “on the road” nostrano facendo notare ironicamente, attraverso questa improbabile trasposizione di un brano di Kerouac, quanto l’inglese possa trasmettere una narrazione o, come si direbbe oggi tanto per non farci mancare un’altra espressione inglese, uno storytelling più efficace.

Ma l’ironia gucciniana ci porta anche a riflettere su quanto l’uso e l’abuso degli anglicismi in italiano abbia spesso la funzione, soprattutto nel discorso pubblico, di impressionare l’uditorio, coprendo talvolta con espressioni roboanti la pochezza dell’intervento delle autorità (non sempre) competenti.

Si perde il conto di quante volte, parlando ad esempio della necessità dell’ennesimo intervento di emergenza, che in Italia è la normalità, si prospetti il ricorso a immaginifiche task force, termine  che vorrebbe evocare l’efficienza militare di un manipolo di addestratissimi marines ma che, ripetuto ossessivamente e associato spesso a una scarsa efficacia concreta, provoca piuttosto un effetto Sturmtruppen. 

Siamo evidentemente al confine con la manipolazione della realtà attraverso la lingua che alcuni esempi rendono ancora più esplicita.

La dura realtà del lavoro da casa, con le sue criticità di cui soprattutto le donne soffrono le conseguenze, viene addolcita e mistificata dalla definizione di smart working che fra l’altro non trova riscontro nel mondo anglofono, dove si preferisce usare espressioni più asciutte e realistiche quali home office. 

Ma volete mettere come suona meglio usare un’espressione “esotica” che suggerisce una forma di lavoro agile e intelligente?

E quando, nella tormentata realtà italiana, si profilano i ricorrenti tagli alla spesa sociale, non è molto più elegante e accettabile parlare di spending review?

Quando poi si parla di riforme del mercato del lavoro, i cui vantaggi per i lavoratori sono quanto meno controversi, ecco pronto il jobs act, altro termine che un anglofono fa fatica a comprendere.

Insomma, questo ricorso strumentale all’inglese fa spesso venire in mente il manzoniano latinorumun uso mistificatorio della lingua di cui l’incolto ma furbo Renzo Tramaglino giustamente diffida.

O se preferite la lingua che i potenti di Fontamara usano per ingannare e derubare i poveri “cafoni” nell’omonimo romanzo di Ignazio Silone.

Qui viene affrontato un aspetto particolare del più generale abuso di anglicismi nella lingua italiana che merita una trattazione a parte.

 Gli scambi e gli influssi fra lingue diverse sono un arricchimento linguistico e culturale per tutti e sono un aspetto essenziale anche dell’italiano che oggi parliamo.

Il problema non è quindi battersi per l’affermazione di un astratto purismo linguistico ma riconoscere la pari dignità delle diverse lingue e usarle in modo corretto e rispettoso.

Come se ne esce? Migliorando, per quanto riguarda gli italofoni, la conoscenza dell’inglese e di altre lingue straniere. Una diffusa conoscenza dell’inglese, in particolare, renderà difficile utilizzare la lingua di Shakespeare per fare sfoggio provinciale delle proprie conoscenze linguistiche, magari per intimidire i “cafoni” di turno con un nuovo latinorum.

Alla fine ne trarranno vantaggio entrambe le lingue.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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