Cercare la radice di una realtà significa fissare dove sta la sua origine (la sua dimensione storica), ma anche chiedersi quale sia il principio che la costituisce, la sua fonte d’essere o, più precisamente, la causa del suo essere e in questo modo riuscire a darne una definizione.
Qual è l’origine del concetto di persona?
Ma innanzitutto chi è la persona?
Quale è la radice etimologica di questo nome?
Si ritiene che il termine proviene dal greco “prosopon” che significa il volto, cioè la parte anteriore di un corpo (la particella “pro” indica ciò che sta davanti). I greci riferivano con questo termine anche le maschere del teatro. C’è chi preferisce cogliere la radice del termine “persona” nel verbo latino “personare”, che significa “risuonare” e ci riporta pure alla maschera teatrale che avrebbe la funzione di potenziare la voce dell’attore, dandone una maggiore risonanza. Altri ancora ritengono che la radice è da ricercare né nel greco né nel latino ma nella lingua etrusca, e precisamente nella parola “phersu”, che significa anche una maschera teatrale.
Il filosofo Robert Spaemann nel suo libro “Persone – Sulla differenza tra qualcosa e qualcuno”, ripercorre l’evoluzione del concetto di persona, dei suoi presupposti e mutamenti. Di seguito la sua tesi inmerito.
Vi sono qualità che ci spingono a definire gli uomini e le donne “persone”. Tuttavia, ciò che chiamiamo persone non sono queste qualità, ma coloro che le portano. Ora, vi sono chiaramente uomini che non dispongono di queste qualità. Potrebbe così sembrare che questi uomini non siano persone e non possano avanzare nessun diritto a essere riconosciuti come persone.
Se le persone sono i portatori individuali di una “natura razionale”, allora non sembrano essere persone quegli uomini che non ancora, non più o mai hanno potuto disporre di razionalità e di intenzionalità: dunque non sono persone i bambini piccoli, i deboli di mente, i comatosi.
Essere persona significa essere membro di una comunità di riconoscimento. Riconoscimento come diritto a un posto nella comunità già esistente delle persone, non la cooptazione secondo criteri definiti da quanti sono già stati riconosciuti.
Chi può far valere questo diritto o per chi esso può essere fatto valere?
Quali qualità qualcuno deve possedere per aver diritto a essere riconosciuto come persona?
La questione è mal posta perché essa utilizza il termine “qualcuno”. Quando “qualcosa” è “qualcuno” egli è Persona.
Qualcuno non è mai “qualcosa”. “Essere qualcuno” non è una qualità di una cosa o di un essere vivente, una qualità che predichiamo di qualcosa che avremmo identificato in precedenza. In realtà, identifichiamo fin da principio “qualcuno” o “qualcosa”.
“C’è qualcuno?”, chiediamo, oppure: “Chi c’è?” quando sentiamo un rumore.
La specie, a cui attribuiamo l’essere persona, si chiama “uomo”, senza voler escludere con questo che al di fuori degli uomini vi possano essere altre persone.
La domanda quindi suona così: “Tutti gli uomini sono persone?”.
I diritti personali sono diritti umani, oppure dobbiamo escludere una parte degli uomini dall’ambito delle persone e dunque rinunciare al termine “diritti umani”, come negli ultimi tempi viene proposto?
La ragione di questa proposta è la seguente: se la razionalità e l’autocoscienza sono le qualità in base alle quali definiamo gli esseri come persone, allora è irragionevole chiamare “persone” anche quegli esseri che non dispongono di tali qualità.
La convinzione intuitiva del nostro autore è che tutti gli uomini sono persone.
L’umanità è il nome di una concreta comunità di persone, alla quale nessuno appartiene sulla base di certe qualità determinabili concretamente, ma sulla base del vincolo genealogico con la “famiglia umana”. In Kant “umanità” significa la famiglia dell’uomo e ciò che fa dell’uomo una persona: “L’umanità nella tua persona e nella persona di ogni altro”.
Il riconoscimento dell’essere persona è il riconoscimento di un diritto incondizionato. L’incondizionatezza di un diritto sarebbe illusoria, se questo diritto in sé incondizionato, e la sua presenza concreta, dipendessero da presupposti empirici.
Quanto il nostro riconoscimento identitario è legato, secondo il lettore, al concetto di persona?