L’arte come cura: perché porto i miei figli al museo

Maggio. Poco più di un anno fa, quando ancora il virus del Covid-19 dilagava, colpiva, isolava e dominava le prima pagine di tutti – ma proprio tutti – i giornali mi trovavo a Bellinzona, presso la Casa del Popolo, per la mostra sui lavori di Mario Comensoli. Mascherina sul volto e disinfettante a portata di mano (letteralmente), giravo per la sala al piano superiore allestita con prime pagine di giornali, manifesti e locandine datate anni ’70, ’80 e alcune anche ’90: illustravano scuole serali, raffiguravano pre-apprendistati e momenti appartenenti alla vita di operai e manovali. Buona parte del pensiero di Comensoli sul lavoro sindacale elvetico era riassunto in quella trentina di fogli: davanti a me si palesavano singoli individui – emigranti, emarginati, lavoratori e lavoratrici, giovani – che presi insieme andavano a costituirsi in una collettività eterogenea e diversa, fragile di mezzi ma sufficientemente compatta per problematiche e valori. Accanto a me, ad osservare i due ragazzi e una ragazza raffigurati nel manifesto della Scuola professionale emigrati del 1987 c’era uno dei miei figli. Aveva allora cinque anni e ricordo che mi disse: “mamma, guarda, si tengono per mano”. Mi sorprese. Quel “tenersi per mano” tra amici, gesto semplice e naturale, a lui non era dato; per motivi sanitari gli era stato tolto. Risposi che presto anche noi avremmo potuto riabbracciare le persone care. Non sapevo, allora, se e quando la mia affermazione si sarebbe realizzata. Ma di fronte ai disegni di Comensoli provavo speranza: come quei lavoratori e lavoratrici, non ci saremmo arresi. Non era retorica, e non lo è ora.

Un anno dopo quella mostra, presso il Centro culturale di Chiasso gli “uomini in blu” di Comensoli tornano a mostrarsi al pubblico. Chi andrà a vederli probabilmente non indosserà più la mascherina ma il cuore non è certo più lieto di alcuni mesi fa. Finita (per davvero?) l’emergenza Covid, siamo ora afflitti dalle notizie sulla guerra che arrivano giornalmente dai media. Nuovamente, siamo impreparati, fragili, impauriti. Noi adulti e ancor più i giovani. Io mi appresto a tornare a guardare il lavoro di Comensoli e porterò i miei figli. “Perché?”, mi hanno chiesto?

“Perché no?” potrei rispondere. Ovvero, per lo stesso motivo per il quale li ho portati, negli ultimi mesi, ad ascoltare Rossini a teatro e a vedere una mostra di dipinti rurali del Ticino di due secoli fa.

Perché possano, nel bello dell’arte, negli sguardi resilienti delle figure di Comensoli, nelle note spiazzanti del Barbiere di Siviglia o nel verde del paesaggio rurale trovare un appiglio per guardare al futuro come a un divenire che è ancora da scoprire e da fare.

Perché di fronte al rumore spiazzante, poco comprensibile e non di rado spaventoso che ci circonda, l’arte è una cura. E desidero imparino a servirsene presto, di questa cura.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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