L’attualità del pensiero di Hannah Arendt

Mi ha colpito molto la foto, diffusa in questi giorni attraverso i social, della madre e della figlia morte di sete e di stenti nel deserto tra Libia e Tunisia, respinte dalla polizia di questo Paese e frutto degli sciagurati accordi stipulati dall’UE di cui il nostro Governo si è fatto promotore. Una foto che riassume la tragedia quotidiana dei migranti, la cui unica speranza è quella di raggiungere il mare e tentare la traversata con barconi e barchini, mettendo le loro vite nelle mani di trafficanti che sulla loro pelle realizzano enormi guadagni. I costi per questi viaggi della speranza sono il frutto di anni di sfruttamento nei campi libici o tunisini e delle rimesse dei famigliari nei loro Paesi d’origine che sperano in un ritorno economico quando il loro congiunto avrà raggiunto l’Europa e trovato un lavoro. Spesso questi sogni si infrangono contro i marosi che hanno fatto del Mediterraneo il più grande cimitero del mondo; oppure i migranti vengono intercettati dalla Guardie Costiera libica (e ora anche tunisina),  finanziata dall’UE e alle quali l’Italia fornisce le motovedette che – come racconta la stragrande maggioranza dei migranti salvati – coincide spesso con i trafficanti: una galassia di milizie prestate al mare ma soprattutto al miglior offerente, espressioni di potentati locali in lotta tra di loro per il controllo di traffici illegali, quello dei migranti in primis.

In un Paese normale questi fatti dovrebbero creare indignazione, provocare almeno un cambiamento di rotta del Governo nella gestione del fenomeno migranti: di fatto, noi finanziamo e forniamo motovedette agli stessi che gestiscono il traffico di esseri umani che, a parole, si dice di voler contrastare.

Invece, leggendo i sondaggi di questi giorni, vediamo che il consenso nei confronti di questo Governo è in continuo aumento. Eppure, non si può dire che manchi l’informazione, né sui giornali, né alla televisione, né sul web: moniti importanti su questa continua campagna di odio e di paura arrivano in continuazione da personaggi del mondo della cultura; autorevoli giornalisti; Papa Francesco, con i suoi richiami all’accoglienza; la CEI, con la sua campagna “Liberi di partire, liberi di restare”; dalla politica, ad esempio  dalla senatrice Liliana Segre con il suo appello a resistere alla “tentazione dell’indifferenza verso le ingiustizie e le sofferenze che ci circondano”.

Ma la risposta che arriva, soprattutto se ci soffermiamo sui social, è un’enorme dose di aggressività espressa, vomitata; siamo di fronte all’anestesia, o forse alla morte delle coscienze.

La povertà, specie nel mondo occidentale, è cresciuta a partire dalla crisi finanziaria e successivamente economica iniziata negli USA nel 2007, e quindi trova le sue radici nel “… capitalismo sfrenato degli ultimi decenni che ha ulteriormente dilatato il fossato che separa i più ricchi dai più poveri, generando nuove precarietà e schiavitù” (Papa Francesco).

Sarebbe stato logico aspettarsi   una presa di coscienza e una ribellione da parte dei ceti sociali più colpiti dalla crisi e uno spostamento a sinistra del loro orientamento politico che mettesse in discussioni anche la politica di una sinistra incapace, nel suo complesso, di rappresentare gli interessi dei più deboli, non in grado di sostenere i valori di solidarietà, di difendere come intoccabili i beni non negoziabili quali la salute e di ripartire in modo equo il carico fiscale

Invece in questo vuoto, e nella mancanza dei tradizionali punti di riferimento delle classi subalterne si è abilmente inserita la destra.

I lavoratori oggi sono divisi in mille rivoli e spesso si guardano tra loro con ostilità: l’ultimo dei funzionari amministrativi si ritiene migliore dell’operaio e l’operaio considera l’ultimo funzionario come nemico privilegiato, al pari del dirigente amministrativo.

Un po’ come avviene per i capponi di Renzo così ben descritti ne “I Promessi Sposi”: spesso, quando ci troviamo in difficoltà, invece di essere solidali e di fare fronte comune con coloro che si trovano nella nostra stessa situazione, tendiamo a “beccarci” tra di noi, accusandoci a vicenda degli insuccessi, cercando di sfuggire alle nostre responsabilità, e di mettere in evidenza i nostri pregi in contrapposizione con i difetti altrui, cercando di “chiamarci fuori” anche se, come succede ai capponi, siamo “dentro” in pieno.

Ma per far fronte a questo malcontento diffuso, se non si è in grado di trovare risposte efficaci alla crisi e a tutte le storture della società, occorre dare in pasto al proprio elettorato un capro espiatorio, facilmente riconoscibile: i migranti, meglio se africani, con un bel corollario di luoghi comuni appositamente preconfezionati contro di loro, o magari contro i rom: “Bisogna essere infami – scrive in proposito  Moni Ovadia – per prendersela con chi non ha una nazione che lo difende e non può mettere in campo forze economiche e finanziarie per arginare le politiche persecutorie pensate e concepite come perfetta arma di distrazione di massa”; gli omosessuali “minano l’integrità della famiglia naturale”;… (mancano solo gli ebrei, per il resto è un déjà  vu).

Con modalità chiaramente autoritarie l’attuale   governo di destra-centro sta monopolizzando l’informazione pubblica, a partire dalla Rai, nominando funzionari fedeli alla propria linea e “depurando” i propri palinsesti da tutti i personaggi scomodi.

Questa destra si è dimostrata una grande conoscitrice degli impulsi e delle passioni delle folle; con un’informazione calibrata ad hoc riesce bene a parlare alle loro pance, più che alle loro teste.

A questo proposito è interessante l’analisi della filosofa Hanna Arendt (1906 – 1975) a proposito del totalitarismo: la maggior parte delle persone non si schiera politicamente, e per questo spesso viene considerata dai partiti stessi come stupida o apatica. È proprio a questa massa che danno importanza i regimi, non per fare crescere in essa una coscienza politica e sociale, ma per avere un consenso numerico maggiore delle forze di opposizione. É a questa massa che questa maggioranza fa dare libero sfogo agli istinti più primordiali, alle paure ataviche, ai sentimenti di profonda insicurezza che trovano nel razzismo la loro massima espressione.

Si assiste insomma alla tolleranza verso fenomeni preoccupanti che, se non frenati in tempo, possono aprire la strada alle peggiori forme di intolleranza e di razzismo; questi fenomeni andrebbero contrastati con un attento lavoro di informazione educazione e pratica antirazzista e non certo assecondati o giustificati da una compiacente informazione funzionale al regime.

Anche oggi, proprio adesso, mentre scrivo queste righe, apprendo dei 41 migranti annegati in mare, mentre un testimone tunisino al porto di Sfax afferma che solo un decimo delle persone che si imbarcano raggiungono – vive – l’altra sponda del Mediterraneo. Ma lo sterminio dei migranti non avviene solo per affogamento, ma anche cadendo  dai camion stracarichi mentre cercano di raggiungere la Libia e non vengono raccolti ma  lasciati morire lì, in mezzo al deserto: Talvolta  vengono uccisi per uno sguardo di troppo da ragazzini di dodici anni che si aggirano per i campi di concentramento libici armati di pistola o uccisi ogni giorno anche dalle guardie di frontiera dei vari Paesi; travolti, spesso intenzionalmente, da camion, come avviene frequentemente nei pressi di Calais; oppure in seguito al  rifiuto di prestazioni mediche. E poi ci sono i molti, moltissimi che si tolgono la vita (si parla di 450 persone, fra le quali non pochi minorenni, che hanno scelto di morire, dopo aver coraggiosamente affrontato viaggi costellati da ogni sorta di pericoli, sofferenze e orrori).

Anche i social sono spesso una triste vetrina che espone odio e indifferenza.

Per comprendere questo fenomeno, ancora una volta, ci viene in aiuto il pensiero di Hanna Arendt, la quale, assistendo al processo del famigerato criminale nazista Otto Adolf Eichmann, ebbe a scrivere: “… mi sono sentita scioccata perché tutto questo contraddice le nostre teorie di male”. La perplessità davanti a questa apparente contraddizione e la relazione chiara tra il problema di male e la facoltà di pensare, fu espressa da Arendt con la definizione “ banalità del male“. Eichmann aveva coordinato l’organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i vari campi di concentramento e di sterminio. Nel maggio 1960 agenti israeliani lo catturarono in Argentina, dove si era rifugiato, e lo portarono a Gerusalemme. Processato da un tribunale israeliano, nella sua difesa tenne a precisare che, in fondo, si era occupato “soltanto di trasporti“. Fu condannato a morte mediante impiccagione e la sentenza fu eseguita il 31 maggio del 1962. Il resoconto di quel processo e le considerazioni che lo concludevano furono raccolte  nel  libro “La banalità del male (Eichmann a Gerusalemme)”, In cui  Arendt analizza i modi in cui la facoltà di pensare può evitare le azioni malvagie. La banalità del male ha accentuato la relazione fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio, e le loro implicazioni morali. La prima reazione della Arendt alla vista di Eichmann fu più che sinistra. Lei sostenne che “… le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, ne demoniaco ne mostruoso”. La percezione di Eichmann, da parte dell’autrice, sembra essere quella di un uomo comune, caratterizzato dalla sua superficialità e mediocrità che la lasciarono stupita nel considerare il male commesso da lui, che consisteva nell’organizzare la deportazione di milioni di ebrei nei campi di concentramento. Ciò che la Arendt scorgeva in Eichmann non era neppure stupidità ma qualcosa di completamente negativo: l’incapacità di pensare.

Ed è proprio ciò a cui stiamo assistendo oggi.

 

La cosa più terribile è quando individui piatti e incapaci si accompagnano ad esaltati.
(Johann Wolfgang Goethe)

 

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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