Marzo 1968: cambiò il mondo e io, dalla Svizzera, rimasi a guardare

di Federico Camia

I primi mesi del 1968 erano stati mesi di grande cambiamenti nelle fabriche, nelle scuole e nelle università di molte città italiane. In quell’anno sarebbero poi cambiate molte cose: la politica, il lavoro, i valori, per poi sfociare in una lunga stagione di discussione e di conflitti, di cui rimangono gli atti scritti e non scritti: la ribellione armata, l’uccisione di Martin Luther King premio Nobel per la pace e del senatore Robert Kennedy, l’arrivo sulla scena musicale dei Beatles ed i tanti fatti di cronaca di cui abbiamo ancora il ricordo.

Fu a marzo che tutto ebbe inizio.

Fu a marzo che gli studenti a Varsavia fecero divampare la ribellione. Francia, Germania e Italia furono percorse da grandi agitazioni nelle fabriche e nelle università. In Italia venne proclamato lo sciopero generale dei lavoratori per le pensioni, a Roma un corteo di studenti si diresse verso la facoltà di architettura a Valle Giulia e si scontrò per due ore con le forze dell’ordine con decine di feriti da ambo le parti. Il Rettore chiuse a tempo indeterminato l’Università di Roma.

Io invece, all’inizio del 1968, di tutta questa crescente tensione avvertivo ben poco. Avevo terminato la “stagione invernale” a fine aprile a Crans sur Sierre in Svizzera allo Sporting Club, dove ero andato con l’intento di migliorare la conoscenza della lingua francese.
Come me, anche la clientela internazionale di quella famosa stazione turistica credo fosse poco attratta da quello che stava succedendo nelle strade e sulle piazze di mezza Europa. Le piste da sci erano affollate, così come la sala dello Sporting adibita a Casinò; la sera poi le migliori orchestre italiane e francesi si esibivano all’ “Wischy a gogò” nei nuovi repertori di musica. Per noi italiani spesso veniva cantata “Canzone per te” di Sergio Endrigo vincitrice del recente festival di Sanremo.

Negli alberghi e nelle strade di Crans sur Sierre di tutta la contestazione in giro in altre parti d’Europa, noi non percepimmo alcun segnale. I dipendenti stagionali, quasi tutti italiani, lavoravano per confermare la loro preparazione professionale e l’assoluta serietà di un popolo ancora migrante. A noi tutti, quello che importava era il cambio favorevole che avrebbe permesso a fine stagione di realizzare buoni guadagni. Lontano dai sobbugli e dalle contestazioni delle grandi città francofone che iniziavano ad industrializzarsi esisteva un mondo ben diverso, un mondo laborioso che però trovava il tempo di divertirsi, vivere attimi di serenità con gli amici. Tra quelle montagne svizzere, dopo il lavoro si pensava piuttosto ai primi amori giovanili , senza manifestazioni o contestazioni di sorta, coscienti in primo luogo del impegno lavorativo assunto in uno stato straniero.

In quegli anni per entrare in Svizzera seppure provvisti di regolare contratto di lavoro, in un ufficio posto presso la stazione ferroviaria di Briga, tutti noi che arrivavamo dall’Italia dovevamo sottoporci a visita medica, relativi esami del sangue e raggi X. Poi prima di raggiungere il posto di lavoro si doveva passare alla Gendarmeria del paese che tratteneva il passaporto e consegnava un documento identificativo e che permetteva di viaggiare sul territorio elvetico. Avevo allora una 500 bianca acquistata con i primi risparmi e con questa piccola auto, che a me sembrava allora quanto di meglio potessi desiderare, viaggiavo nelle giornate di riposo da un cantone all’altro per visitare e conoscere città nuove: Ginevra, Berna, Lucerna accompagnato da Ruth che essendo di Zurigo era perfettamente a suo agio in città di lingua tedesca. Il mondo della contestazione era lontano, le notizie arrivavano via radio, dalla lettura dei giornali di lingua francofona, i soli reperibili in quella parte di Svizzera o da quello che ci raccontava qualche cliente italiano che soggiornava per un periodo di vacanza nel Vallese. Il 15 di marzo il mondo apprese che in Vietnam le truppe americane avevano compiuto nel villaggio di Mylai una esecuzione di massa di 102 civili: vecchi, bambini e donne.

Passò la primavera e l’estate. Io seguivo le contestazioni e gli accadimenti nel mondo con attenzione ma non ne ero coinvolto in prima persona, troppo impegnato com’ero a formarmi professionalmente.

Poi a settembre, mentre mi trovavo per un breve periodo nel mio paese natale fu organizzata una contestazione contro la proiezione, in anteprima nazionale, di un film molto discusso per il suo indirizzo guerrafondaio e reazionario che glorificava la guerra in Vietnam: Berretti Verdi. Un gruppo di amici mi convinse a unirmi alla protesta. Ricordo il tempo che sembrava non passare mai, mentre, con le tasche piene di piccole monete – che allora erano davvero leggere leggere – aspettavamo il segnale per lanciare le monetine contro gli spettatori in fila di fronte alla sala cinematografica. I soldi che lanciammo però furono ben pochi, perché ci fu una leggera ingerenza della polizia che fermò la contestazione. Qualcuno allora decise di attendere la fine dello spettacolo per continuare la contestazione verbale. Io ed altri, invece, preferimmo andare al bar di ritrovo dei giovani del posto. Fini così velocemente la mia prima serata di contestazione.

Oggi dopo tanti anni e tante pagine lette su quel periodo storico mi dico che, davvero, non mi devo sentire in colpa per non aver partecipato a cortei di protesta o a manifestazioni.

No, non mi sento in colpa. 

Avevo 20 anni e un unico desiderio: quello di emergere in una professione difficile e che mi occupava per molte ore. Volevo dimostrare a me stesso e ai miei genitori,che mi avevano lasciato libero di fare una mia scelta di vita, che avevo le capacità per emergere e riuscire a raggiungere le mie ambizioni. Francamente partecipai sempre in quel periodo, ad un altro piccolo e sciocco atto sovversivo, ma non ricordo contro chi era indirizzato.

“Del Sessantotto si è finito col dire, alla distanza più male che bene: terrorismo, nuovo consumismo e azzeramento delle ideologie hanno contribuito a formare il latente giudizio secondo cui quell’anno e quei fatti furono portatori di danni più che di conquiste. Un giudizio smemorato: tutto ciò che ha restituito dignità umana da allora ad oggi, viene da lì. Piuttosto sarebbe stato difficile prevedere un ritorno così massiccio, sfrontato e incontrastato delle vanità, della ricchezza, della pubblicità idiota, del perbenismo, del conformismo, del bene comune” (Paolo Guzzanti)

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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