Pensieri per il nuovo anno: se arte e la cultura ci salveranno

Carelli pieni di salumi (maiale, cervo e cinghiale); tranci di salmone fresco o affumicato. Ravioli e antipasti di formaggi di ogni tipo, a pasta dura o molle, e provenienza locale ma anche da oltre confine. Salse e sughi per gli arrosti. Carne, in generale. Tanta. E per desser, biscotti alle mandorle. Alla cannella, all’arancia e al miele. Cioccolati vari, per tutti i gusti, dolcetti con incarti natalizi. Panettoni e Pandori. Il tutto, segnato su scontrini a tre cifre.

Eppure, sempre più frequentemente, anche nei carrelli della spesa svizzeri trovano posto confezioni “budget”. Sotto-marca, si può anche dire così. Frollini che hanno lo stesso gusto di quelli messi negli scaffali più alti dei supermercati. Scatole di pasta di grano duro, ma forniti da produttori all’ingrosso. Anche zucchine e carote che non sono di prima scelta. Ma di seconda o terza e il cui sapore deve essere, quasi necessariamente, diverso. E se non lo è, è bene preoccuparsi…

Nel Paese, la povertà cresce. Secondo i dati pubblicati dall’Ufficio federale di statistica (UST), nel 2019 l’8,7% della popolazione (circa 735’000 persone) viveva in povertà. Un individuo su cinque (20,7%) non è stato in grado di far fronte, nello spazio di un mese, a una spesa imprevista di 2’500 franchi. E con il Covid, la situazione sta peggiorando, come sottolineato a più riprese da numerosi esperti. Se prima dell’emergenza pandemica si contavano 660’000 persone sotto la soglia dell’indigenza – dati 2018 dell’Ufficio federale di statistica- nel 2020 se ne sono aggiunte altre 500’000. La condizione colpisce in particolare modo le persone straniere, quelle che vivono in economie domestiche composte da un genitore solo con figli, quelle senza una formazione post-obbligatoria e chi si trova in economie domestiche non attive sul mercato del lavoro. Non solo: ricordiamo (ancora una volta, ricordiamolo!) che sono in primis giovani e donne ad aver visto le proprie condizioni professionali, e quindi anche sociali, deteriorarsi. “Sono aumentate soprattutto le richieste di aiuto finanziario diretto, quindi pagamento di fatture in sospeso, e di buoni per la spesa”, ha confermato fra Martino Dotta, direttore della Fondazione Francesco per l’aiuto sociale.

E proprio in aiuto di chi ha bisogno e chi non riesce ad arrivare a fine mese (anzi, nemmeno a metà), si moltiplicano centri di prima accoglienza. In Ticino, ad esempio, il Centro sociale Bethlehem di Lugano, che ospita persone le quali si trovano in condizione di necessità: a loro vengono offerti servizi primari, come colazione, pranzo, riposo, doccia, bucato, cambio abiti, mentre a Locarno c’è la Casa Martini dove i pasti distribuiti superano ormai i 2.000 al mese. Progetti di questo tipo sono presenti nelle diverse regioni svizzere: in Canton Zurigo, ad esempio, già nel 2019, è stato pensato un servizio “take-away” per risponde (anche) all’immediato bisogno primario di nutrirsi e i cui destinatari sono stati, da subito, i poveri, gli emarginati ma anche chi vive in solitudine. Un altro esempio di aiuti verso i poveri arriva da Ginevra, dove nel gennaio del prossimo anno sarà aperto il Refettorio, su iniziativa dello chef italo-egiziano Walter el Nagar. Si tratta di un ristorante che cercherà di essere sostenibile finanziariamente aprendo ai clienti paganti a mezzogiorno e preparando, invece, pasti serali gratuiti per coloro che ne hanno bisogno. Infine, come non ricordare che proprio lo scorso fine settimana, nel quadro della Giornata nazionale di solidarietà a favore dell’infanzia che soffre, la Catena della solidarietà svizzera ha raccolto oltre 4,2 milioni di franchi, i quali serviranno a finanziari progetti per la protezione e per l’educazione dei bambini in Svizzera e all’estero.

Insomma, la povertà dilaga ma non solo lei, verrebbe da scrivere. Anche la solidarietà è un valore capace di imporsi. Eppure, è proprio così? La pandemia ci sta rendendo più attenti agli altri e disponibili verso chi ha bisogno? Ci ha aiutando a fare sistema, mettere in rete e innescare collaborazioni per proteggere i più vulnerabili?

Al di là di casi singoli e momenti specifici, come quelli prima citati, la verità è non stiamo diventando più generosi verso gli altri. Ne è un dato il forte scollamento sociale, farcito di tensioni verbali e talvolta fisiche, che separa gruppi della società divisi dalla gestione della pandemia. Ripensiamo anche alla prima ondata di covid: allora abbiamo assistito a una forte, immediata e consistente risposta dei cittadini delle società occidentali alla malattia. Ovunque si sono aperti canali per donare denaro, beni e servizi, a favore delle strutture sanitarie, della protezione civile, dei governi locali. L’emergenza causata dal coronavirus, profetizzava qualcuno, ci porterà a rivedere le gerarchie, ridurrà le distanze sociali, facilitando quel tipo di comunicazione empatica “da cuore a cuore”. Ma, mentre il 2021 volge al termine, non abbiamo ancora fatto nostra una comprensione reciproca non verbale che unisca gli esseri umani, riconosciuti come simili e incuranti delle differenze.

Anche il sondaggio “barometro della solidarietà”, condotto dall’istituto di ricerca zurighese Sotomo, mostra che per oltre un terzo degli intervistati assistiamo a un deterioramento della solidarietà nell’insieme della società, e addirittura il 45% sta talmente sulle sue da non aver voluto rispondere su questo tema.

Ecco, a Natale ( e sempre), che le facciano i ricchi, le donazioni – ragionano in molti.

Che dire? Come dar torto a questo pensiero? Non sarebbe effettivamente bello, addirittura auspicabile (se non “logico”) pensare che c’è un gruppo di persone facoltose le quali sono in grado e vogliono prendersi cura della Cosa Pubblica, muovendo le relazioni tra soggetti dotati d’interesse e promuovendo società che siano creative, efficienti e profittevoli e allo stesso tempo basate su espliciti rapporti di generosità non confinata a un preciso bisogno o momento? Forse sì, per alcuni. Non necessariamente, per altri (e tra questi, mi ci metto anch’io). Perché in un contesto come quello descritto – scrive Carlo Silini nel un articolo apparso sul Corriere del Ticino (18 dicembre 2021) – il rischio di “un assistenzialismo che deresponsabilizza le persone”, sarebbe alto. E poi, se il donare forse delegato (o relegato) a chi sta molto bene economicamente, chi dona rischierebbe di diventare anche un po’ antipatico: insomma, sarebbe fin troppo facile immaginare filantropi e mecenati seduti nei loro salotti eterei, lontani dai problemi concreti della gente, a decidere verso quale progetto, per quale causa, donare parti del proprio ingente patrimonio..

Ecco perché ha ragione – tanta ragione – Silini , quando scrive che la forma di beneficienza più alta che dovremmo sperare di vedere attorno a noi è quella culturale.

Qualche tempo fa, ho avuto il piacere di intervistare Fabiano Alborghetti, poeta e Presidente della Casa della Letteratura per la Svizzera italiana. In quell’occasione parlammo anche di mecenati. Nelle sue parole, tutta la tensione e il senso di responsabilità verso un mecenatismo rivolto alla cultura. Disse: “Il mecenatismo, oggi, può e deve creare un dialogo tra quello che vediamo e quello che recepiamo; sollecitarci ad andare oltre quanto siamo in grado di poter comprendere, porci di fronte alla sfida del confronto e del diverso. L’atto del mecenate non è il produrre fisicamente un prodotto, ma è qualcosa che va oltre, al di là: è il confronto che le persone hanno con l’esperienza artistica, quello che rimane dopo, il come questa esperienza fa crescere. Il compito del mecenate è guidare lo sguardo a non abituarsi, preparandolo per qualche cosa che verrà e che sarà ancora più estremo e più avanti, dopo. Il mecenate, che erroneamente si ritiene una figura statica, crea invece il futuro. Il mecenate è il vento che su un focolare quasi spento ne ravviva le braci. Ora, possiamo fare spegnere il fuoco e adorare le braci morenti come emblema del grande passato, oppure capire che il mecenate è quel fiato che continua ad alimentare il fuoco”.  

A fronte delle quotidiane e crescenti tensioni sociali, divisioni di collettività e frizioni tra gruppi, l’arte e la cultura possono nutrirci traghettandoci verso un altrove che però ci rende molto più saldi e solidi nel presente. E qui concludo: che mecenati e filantropi continuino a promuovere le arti, quale strumento per promuovere la crescita umana e arricchire (moralmente) l’umanità! Che, insomma, la beneficienza culturale divenga la misura d’essere del prossimo anno e il 2022 non sia un “2020 too”!

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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