Salute: fragilità e solitudine degli italiani all’estero

Rosa è una mamma che si è trasferita, nemmeno troppo recentemente, nel nord Europa, dove lavora in una casa anziani; sposata con un uomo in carriera, ha due figli, uno con sindrome da deficit dell’attenzione. Dove trovare uno psicologo adatto? Gli incontri di psicoterapia sono sovvenzionati o a  pagamento? Ci vorrebbe poi anche un aiuto per i compiti dopo la scuola: a chi rivolgersi per trovare una figura adeguata?

Francesco è un giovane laureato in economia. Ha lasciato l’Italia dove non trovava lavoro che non fosse precario. Ora un impiego fisso ce l’ha, anche se poco c’entra con il percorso di studi che ha concluso. È single e lo stipendio che riceve gli permette di avere una vita dignitosa. Ma è solo. È arrivato da poco nel nuovo Paese, gli amici e i familiari sono rimasti in Veneto. Deve fare un corso di lingua, assolutamente, per integrarsi. Vorrebbe anche trovare un club per giocare a calcetto. Dove cercarlo? All’A.I.R.E, che è Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero, non si è ancora iscritto, dovrà farlo quanto prima; l’assicurazione sanitaria invece l’ha appena stipulata.

Le storie di Rosa e Francesco sono frutto di fantasia ma realistiche. Di Rosa e Francesco “in carne e ossa” ce no sono tanti: si tratta dei nuovi migranti. Individui che hanno un alto livello di istruzione, sono generalmente motivati da un alto spirito di adattabilità, curiosi. Partono spinti dal desiderio (o bisogno) di migliorare le proprie condizioni di vita.

Eppure, questi migranti sono anche fragili. E soli.

Partire può rappresentare un’opportunità. Ma coglierla al pieno, questa opportunità, può essere tutt’altro che facile.  Partire può portare a sentirsi in trappola. Una trappola di inadeguatezza e paura.

La difficile ricerca di un lavoro o il tortuoso processo di inserimento nel nuovo contesto linguistico, il senso di disorientamento e il timore di “non farcela”, la paura di sentirsi fuori luogo: non sono aspetti alieni alla quotidianità dei migranti “per scelta”, anche se essi fanno raramente capolino nelle discussioni pubbliche. Si parla, e a ragione, dello stress psicologico, oltre che fisico, che vive chi scappa, costretto dalle guerre, dalla fame, dalla siccità, dalla povertà. Rimane più latente (e certamente non comparabile – se di comparazione si può parlare – con il trauma dei richiedenti asilo) il malessere che può impadronirsi di chi sceglie di partire

Confrontati con le novità nel nuovo paese, schiacciati dalle incombenze pratiche da svolgersi e dalle richieste che arrivano dal nuovo contesto in cui ci si trova a vivere, i nuovi emigrati “per scelta” si possono sentire inadeguati al punto da cadere nell’auto critica, sopprimono le emozioni dolorose, si chiudono in se stessi. Talvolta perché non trovano modo di farsi ascoltare. E la loro salute mentale ne risente. 

Roberto Riva, psicologo in Svezia, da anni lavora cercando di aiutare le persone a controllare lo stress e a prevenire il burnout. Non sono solo gente con passato migratorio, certo. Ma i migranti non mancano. 

«Queste persone, nel vortice della nuova realtà, possono trovare difficile identificare cosa sia importante per loro, come gestire la relazione famiglia-lavoro, quale spazio il tempo libero debba occupare nella loro quotidianità – ci spiega il dottor Riva – Si tratta di individui che hanno difficoltà a definire cosa sia importante per loro e quale cambiamento potrebbe farli stare meglio. Nel mio lavoro con questi pazienti, cerco di risvegliare in loro quella consapevolezza empatica che, con un anglicismo, si definisce self-compassion». Semplificando un po’, essere empatici con se stessi aiuta a comprendere i propri bisogni, desideri, priorità. Serve a perdonarsi i propri limiti.

A qualcuno queste parole potrebbe far venire in mente il burnout, un concetto preso dalla psicologia del lavoro che comporta una sensazione di esaurimento energetico o di stanchezza e una vera e priorità distanza mentale dal proprio lavoro che rende difficile lo svolgimento dello stesso. Per descrivere il sentimento di difficoltà prolungato esperito dai migranti però è meglio utilizzare un altro termine identificato come una sorte di disturbo da esaurimento. In inglese si ricorre all’unione di due termini, “exhaustion disorder”. C’è un’altra parola che meglio esprime tutto questo. «E’ una parola svedese – ci spiega Riva – complicata da pronunciare: Utmattningssyndrom, che va a indicare la conseguenza di uno stato di attivazione psicofisiologica prolungata in risposta a una minaccia o sfida reale o percepita senza la possibilità di recupero psico-fisico e può comportare stanchezza cronica, disturbi del sonno, problemi somatici come cefale o disturbi gastrointestinali, tachicardia, e poi problemi cognitivi come difficoltà a pensare con chiarezza e perdita di memoria nonché l’indebolimento del sistema immunitario». Lo stress, che è una reazione adattiva all’insieme dei problemi, delle preoccupazioni e delle emozioni del nostro quotidiano – e che esiste dagli albori umani – è stato fondamentale per la sopravvivenza della nostra specie. Tuttavia, come chiarisce lo psicologo, oggi tendiamo a provare stress molto più intensamente e più frequentemente di quanto sia realmente necessario e questo stress ripetuto, nel tempo e senza adeguato riposo fisico e mentale, può condurre a seri problemi di salute. L’Utmattningssyndrom, appunto.

«Lo stress può colpire tutti – continua Riva – Purtroppo per i migranti la sua gestione può essere particolarmente problematica, là dove ci si trova in un ambiente poco famigliare o quasi totalmente sconosciuto.» Per questo motivo, sono importanti i programmi di appoggio, corsi di integrazione, e magari anche i contatti “umani” che possono crearsi tramite l’associazionismo (così spesso snobbato). Non da ultimo, rivestono un ruolo cruciale le campagne di prevenzione. L’Europa ha da poco lanciato la campagna «Ambienti di lavoro sani e sicuri» 2023-2025, tesa alla sensibilizzazione dell’impatto delle nuove tecnologie digitali sul lavoro e sui luoghi di lavoro e che si inserisce nel Quadro strategico dell’UE in materia di salute e sicurezza sul lavoro 2021-2027, il quale presta particolare l’attenzione anche allo stress e ai rischi psicosociali in contasti lavorativi. «Dall’esercizio fisico alla meditazione, dalle tecniche di rilassamento al “ritagliarsi tempo libero” da dedicare ai propri hobbies e alla famiglia: adottare uno stile di vita più sano e più sereno è di aiuto per gestire non solo ritmi di vita frenetici ma anche situazioni piene di stress e ansia come quelle con le quali possono confrontarsi i migranti» conclude Roberto Riva.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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