Un nome da ricordare: storia di Mamadou in un centro permanente per il rimpatrio a Torino

Mamadou Moussa Balde. Vorrei che ci ricordassimo tutti questo nome.  È il nome di un ragazzo di 23 anni, originario della Guinea, da quattro anni In Italia, che il 23 maggio 2021 è stato ucciso (anche se materialmente si è trattato di suicidio) dall’odio razziale, dall’indifferenza verso i cosiddetti “invisibili”, dalla superficialità con la quale le Leggi vengono applicate e i diritti degli ultimi vengono disattesi.

Mamadou era partito dal suo Paese nel 2015, come molti altri giovani, per sfuggire al regime violento e sanguinario del presidente Alpha Condé, dove ogni giorno si contano i morti nelle file delle opposizioni. Uccisi sia dalla polizia che dalle milizie Donzos, utilizzate dal presidente come armata privata. Alpha Condé ha dichiarato più e più volte, pubblicamente e nella indifferenza della Comunità Internazionale, di voler proseguire il suo incarico di Presidente della Repubblica con altri due mandati di 6 anni ciascuno.

Dopo i traumi vissuti nel suo Paese e quelli subiti durante il viaggio (come la maggior parte dei migranti soprattutto in Libia), si è trovato a dover affrontare le paure della traversata del Mediterraneo, piena di insidie e le incertezze, nell’approdare in un Paese di cui non si conosce la lingua e nel quale si diventa facili prede di ogni tipo di sfruttatori. Ma lui è un ragazzo con le idee chiare; nel centro di accoglienza impara bene l’italiano e ottiene il diploma di terza media. In un video del 2017, girato ad Imperia, nella casa di accoglienza dove vive, afferma di voler “… proseguire negli studi, trovare un buon lavoro e vivere bene”. Con la superficialità che contraddistingue anche molti giovani italiani, riottosi verso tutto ciò che è burocrazia, “si dimentica” di rinnovare il permesso di soggiorno, un errore che gli costerà molto caro.

Nel mese di maggio lascia Imperia e si reca a Ventimiglia: il racconto dei fatti da parte degli amici dell’Associazione 20k (che si occupa di offrire assistenza ai migranti in transito verso la Francia) viene confermato anche dalla signora Delia Buonomo, titolare del bar Hobbit (fino allo scorso dicembre e poi chiuso a causa del vergognoso boicottaggio messo in atto dalla cittadinanza per essere stato anni luogo di ritrovo e rifugio di centinaia di migranti che hanno sempre trovato un sorriso e un pasto caldo). La signora Delia, testimone oculare dell’aggressione, ci ha detto: “… Moussa si era messo davanti all’uscita del supermercato per raccogliere qualche moneta, ma quel giorno è stato aggredito con violenza inaudita da tre giovani italiani che lo hanno preso a pugni, calci e sprangate, quindi si sono dati alla fuga, lasciandolo a terra sanguinante”. Successivamente, essendo stati ripresi dalle telecamere del supermercato, si sono costituiti ai Carabinieri dicendo che il loro gesto è stata la reazione ad un tentativo di furto di un telefonino, ma la versione si rivelerà priva di ogni fondamento.

Il paradosso di questa vicenda è che mentre i tre giovani vengono denunciati e lasciati a piede libero, Mamadou, dopo le cure prestate dal Pronto Soccorso del locale ospedale che lo dimette con una prognosi di 10 giorni, viene condotto al CPR (Centro di Permanenza per il Rimpatrio) di Torino perché non in regola con i documenti. 

I Centri di permanenza per il rimpatrio, nati nel 1998 con la legge Turco-Napolitano per favorire l’identificazione e il rimpatrio degli immigrati irregolari, prevedevano che le persone potessero essere trattenute per un massimo di 30 giorni; ma con i decreti sicurezza di Salvini del 2018, la permanenza è stata portata a sei mesi. Si tratta di veri e propri campi di internamento, dove le persone vengono imprigionate senza aver commesso alcun reato contro la persona o le cose; la loro unica colpa è la condizione di irregolarità, che si traduce in una privazione della libertà personale che dura anche diversi mesi.

Come se la misura detentiva non fosse di per sé già abbastanza dura, il giovane viene posto nel cosiddetto “Ospedaletto”, una struttura lontana dal corpo centrale del fabbricato che, a dispetto del nome, di sanitario non ha proprio niente se non quello di offrire isolamento sanitario e, molto spesso, “… il ricorso all’isolamento avviene per ragioni sostanzialmente disciplinari senza una specifica disciplina giuridica che definisca la procedura con le dovute garanzie di contraddittorio…”, come afferma Mauro Palma, Garante per le persone private della libertà.

Nei 13 giorni di detenzione presso la struttura, nonostante la Legge lo preveda, non viene visto né da un medico (anche per il trattamento delle ferite), né da uno psicologo; al suo avvocato, suo unico interlocutore in quei terribili giorni, ha riferito di non essere più in grado di sopportare la privazione della libertà, si sente esausto, sfinito: una condizione che lo porterà a compiere un gesto estremo, impiccandosi con un lenzuolo alla finestra del bagno.

Ora si sono aperte due inchieste da parte delle Procure ligure e piemontese, che accerteranno le varie responsabilità di tutti i soggetti coinvolti: dai giovani presunti autori del pestaggio, alle eventuali omissioni del personale del CPR. Interventi che, anche nel caso che riescano a far emergere la verità, saranno comunque sempre tardivi.

Ma io vorrei ricordare Mamadou Moussa Balde come una persona (ovviamente non l’unica) che si è presa sulle spalle tutte le sofferenze e le ingiustizie del mondo, un carico troppo pesante per le sue pur robuste spalle; i suoi occhi, che già avevano visto troppe brutture per la sua giovane età, hanno visto nell’ingiusta detenzione l’infrangersi del sogno di una vita migliore.

Mi piace credere che quel suo ultimo respiro terreno sia coinciso il suo primo respiro in un luogo, nel quale “… ogni lacrima sarà asciugata e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate”. (Apocalisse 21, 4)

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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