L’ultimo film di Andrea Segre, “Berlinguer – La grande ambizione”, ripercorre la vita del segretario del PCI negli anni del compromesso storico. Non ho potuto vedere quel film, purtroppo vivendo all’estero dove la pellicola di Segre non è mai arrivata nelle sale. Ne ho lette solo alcune recensioni, del suo lavoro. E proprio a quel film ho ripensato pochi giorni fa, durante una conversazione “politica” con un collega. Si parlava di Berlinguer e più in generale di politici capaci di ispirare cittadine e cittadini con visioni di lungo termine e un profondo senso etico. Oggi dove sono e chi sono?
Apparteniamo a due generazioni lontane, io e il mio collega, ma entrambi ci siamo trovati a interrogarci sulla “questione morale” come fondamento per una politica “pulita” e responsabile, che oggi sembra una rarità mentre dilagano la crisi dei partiti tradizionali, la mediatizzazione della politica, i populismi, la sfiducia e la disillusione dell’elettorato a fronte (anche) dei ripetuti scandali politici. Il tutto in un contesto segnato da una profonda decadenza del linguaggio, oscuro e pieno di tecnicismi, oppure semplicistico e conflittuale.
Non sono una linguista ma non c’è bisogno di esserlo per avere consapevolezza di come il linguaggio sia uno strumento potente, spesso campo di battaglia per ideali contrastanti. Un esempio? Ci sono parole che dovrebbero essere universalmente condivise, come “libertà” e “democrazia”, o (dovrebbero essere) da tutti condannate come “razzista” e “fascista”. Eppure queste parole, pur essendo ampiamente utilizzate, raramente trovano una definizione univoca tra coloro che le usano. Questa ambiguità definitoria non si limita a oscurare il significato, ma alimenta attivamente alcune delle dispute più aspre del discorso pubblico moderno.
A metà del secolo scorso il filosofo britannico Isaiah Berlin sottolineava l’intrinseca complessità della parola “libertà”. Nella sua opera fondamentale, Berlin distingue tra libertà positiva (“libertà di”) e libertà negativa (“libertà da”). Pur essendo entrambe forme di libertà, spesso si trovano in diretto conflitto. Ce lo ha ricordato la pandemia COVID-19 e la retorica dei sostenitori delle campagne anti-restrizioni. Le loro argomentazioni erano incentrate sulla “libertà di” – di muoversi liberamente, di lavorare, di fare scelte personali senza interferenze governative – in chiara opposizione con la “libertà da” (libertà dalla minaccia di infezione, malattia o morte causata dal virus). Entrambe le parti sostenevano, e tutt’oggi sostengono, la libertà, ma chiaramente con contrastanti visioni del significato di questa parola e del concetto sottostante. Si potrebbero ricordare altri casi, tra i quali “difesa della patria” e il concetto stesso che sottende la parola “democrazia”.
Utilizzi diversi di parole, che dovrebbero avere un concetto universale, dividono non solo la popolazione ma anche la Politica, proprio quella con la p maiuscola. E lo fanno dal profondo.
Negli ultimi anni, il discorso politico ha subito una sottile ma profonda trasformazione ed è passato sempre più a discutere di parole e definizioni: un riflesso dei cambiamenti culturali più ampi della società che solleva domande sulla natura del potere, del significato e della governance nell’era moderna, spesso rivolta a dispute sul linguaggio più che di contenuto. Siamo bombardati costantemente da brevi slogan, slogan “a effetto”, ma si discute poco dei valori che ne costituiscono la base. Guardando al caso italiano recente e segnato dall’assoluzione di Matteo Salvini dall’accusa di sequestro di persona per il caso Open Arms, non si può non riflettere su come il concetto di difesa della patria – così connesso al concetto di libertà (di movimento/dal movemento altrui) – funga da grida di protesta o da monito, a seconda della prospettiva ideologica di ciascuno.
Scrivere che le parole stesse sono armi utilizzate per inquadrare argomenti e consolidare il potere non è un’esagerazione. George Orwell, nel suo saggio “Politics and the English Language”, metteva in guardia su come il linguaggio politico possa essere manipolato e manipolatorio per oscurare la verità o celarne una parte. E se, da un lato discutere sul linguaggio in dibattiti “in piazza” può servire per rendere questioni complesse più comprensibili e vicine anche ai non addetti ai lavori, dall’altro lato l’eccessiva semplificazione rischia di portare a polarizzare, riducendo i dibattiti a scelte binarie e politicizzate, che impediscono di affrontare problemi tangibili.
Mentre infuriano i dibattiti su come chiamare il cambiamento climatico o su come descrivere la disuguaglianza sistemica, i problemi stessi – l’aumento delle temperature, i divari di ricchezza – continuano a crescere. E invece, talmente assorbiti dalla politica del linguaggio, completamente persi nell’uso (non raramente improprio) di parole, non rischiamo di esacerbare le divisioni e di trascurare soluzioni praticabili e comuni? Le discussioni semantiche diventano giochi a somma zero, in cui il compromesso è visto come una capitolazione.
Il linguaggio è importante. Non si sta mettendo questo in alcun dubbio. Dubbio è invece lo sforzo di politici, attivisti o commentatori al fine di collegare i dibattiti linguistici a risultati concreti: forse questa posizione sarà invisa a una parte del mondo femminista, ma per me le discussioni sui pronomi dovrebbero anche e soprattutto affrontare le questioni sistemiche che rappresentano, come la discriminazione o l’accesso all’istruzione.
Enrico Berlinguer proponeva di combattere la retorica vuota e le false promesse politiche attraverso un linguaggio chiaro e onesto, che rifiutasse la dissimulazione, l’ipocrisia e il cinismo delle élite politiche, in nome di una politica come servizio al bene comune e radicata in un’idea di etica collettiva. Questa doveva – e dovrebbe – essere la base delle politiche pubbliche.
Oggi che cosa rimane di quella questione morale non so dirlo. Poco, troppo poco – e comunque spesso in termini di una denuncia di comportamenti individuali, mentre non sembra più riguardare un aspetto più profondo della società, quello della necessità di rinnovare il linguaggio e le pratiche politiche per riportarle a una dimensione di giustizia e verità.
Le parole e i simboli non sono fini a se stessi; per costruire un sistema politico più giusto e efficace, dobbiamo bilanciare la politica del linguaggio con la politica dell’azione. Ce lo diciamo spesso. Ma per ora i dibattiti sulle parole rimangono tali, senza tradursi in cambiamenti significativi per tutti.