Le verità sulla maternità che appiccano incendi

Un paio di settimane fa la pedagogista e formatrice Carlotta Cerri, molto attiva nei social sul profilo La tela di Carlotta, ha pubblicato un post con un alto tasso di rischio ritorsione. Probabilmente, conoscendo bene le dinamiche che si innescano su temi particolarmente triggeranti, ne era consapevole e preparata. Leggere le decine di commenti contrariati che ha ricevuto mi ha portato a fare alcune riflessione che vorrei condividere con voi.

C’è un trend che sta prendendo piede in questi ultimi mesi su Instagram, soprattutto, anzi forse quasi esclusivamente tra le donne, che consiste nel postare un Reel con un video o una foto che riprenda la persona in questione, solitamente con una musica come unico sonoro e la scritta: Ho 40 anni (per fare un esempio) e non mi vergogno a dire che… Nella didascalia vengono poi elencate una serie di cose che tendono chiaramente ad andare contro corrente rispetto al pensiero medio dominante. Naturalmente la scelta dell’informazione personale da cui partire è libera ma tendenzialmente concerne con l’età della donna o un suo ruolo, lavorativo, ma prevalentemente materno.

È questo il caso che andremo ad analizzare. Carlotta Cerri che nella vita si occupa di genitorialità, ha fondato insieme a un team di esperti una piattaforma di divulgazione e formazione che aiuta i genitori, spesso anche gli insegnanti, a liberarsi dai condizionamenti culturali dell’educazione tradizionale per trovare nuovi strumenti con cui approcciare alla relazione con i propri figli, più incentrati sull’ascolto, la comunicazione non violenta e l’empatia.

Alla base della loro filosofia educativa c’è l’importanza di legittimare sempre le emozioni, anche quelle più scomode, non solo dei bambini, ma soprattutto quelle dei genitori, per riconoscerle e saperle gestire meglio. Mettersi al centro, imparare a delegare, allontanarsi per rigenerarsi e poter davvero offrire la propria presenza, sono temi ricorrenti, soprattutto per quanto riguarda le mamme, troppo spesso soggette a esaurimenti fisici ed emotivi per il troppo carico mentale che si addossano per tutta l’infanzia e oltre dei loro figli.

Carlotta nel suo post esordisce con la frase: “Sono mamma e non mi vergogno di ammettere che…”, seguita da una serie di informazioni legate alla sua vita quotidiana e al suo legame con i bambini perfettamente coerenti con il suo credo educativo. Lei scrive: Non mi piace giocare con i miei figli, preferisco fare altro con loro; non sento più alcun senso di colpa a mettermi al primo posto, sopra anche ai figli; quando vado via per qualche giorno non mi mancano e non ci chiamiamo; non so che numero di scarpe portano i miei figli perché Alex (il compagno) si occupa di comprare loro vestiti e scarpe; spesso dimentico acqua e snack quando andiamo da qualche parte e ormai i miei figli sono abituati, ma all’inizio erano grandi crisi.

Riesco già a percepire il disagio delle mamme che stanno leggendo salire molto rapidamente. Vorrei precisare che non ne sono immune. Su alcuni punti anche la mia prima reazione di pancia è stata di disaccordo e indignazione, come se avesse trasgredito un patto non scritto di regole intrinseche dell’essere madri, imprescindibile.

Ma andiamo per gradi. Vi riporto alcune risposte e commenti:

-Alcuni punti sinceramente mi mettono tristezza, sono d’accordo che una donna non si debba annullare  per i figli, ma non hanno scelto loro di essere messi al mondo.

-Io personalmente non riuscirei a vivere in questo modo. Non sarei proprio felice e non si tratta di sensi di colpa. Il tempo non torna indietro e probabilmente quando sarai più grande ripenserai a quei momenti che non hai vissuto con i tuoi figli.

-Perché fare figli allora? Della serie se mi va ci sono se no me ne frego…non vedo amore.

-Un vuoto siderale. Qui manca proprio il senso materno, il senso di responsabilità, la vigilanza dolce e autorevole. Mi è venuta la nausea. Questo post è l’aborto dello spirito genitoriale.

-Se il desiderio è quello di mettersi al primo posto allora non fate figli per favore. Perché essere genitori è sinonimo di sacrificio e fatica.

-La cosa più tremenda è scrivere che vai via per giorni e nemmeno li chiami. Comunque non è obbligatorio fare figli.

-Alcuni punti sono umanamente in contrasto con l’essere mamma.

Decine di messaggi così, forse centinaia, una shit storm mediatica per aver espresso realtà scomode che toccano nervi molto scoperti.

Perché? Perché ammettere di far parte di un sistema culturale che impone una sola immagine di maternità lecita delegittima l’unica cosa che ci resta: quello stesso sacrificio che volenti o nolenti ci definisce e ci eleva.

È un congegno subdolo che mette le madri l’una contro l’altra, in un confronto continuo a chi fa di più e meglio, a chi si occupa della casa e dei bambini anche con la febbre a 40, per mostrare quanta forza risieda nel materno, per poi crogiolarsi nei sensi di colpa per aver urlato in faccia ai propri figli: “Non ce la faccio più!!!”.

Mi sto riferendo al contesto italiano perché, per quanto sia radicata la filosofia del sacrificio, si possono individuare alcune differenze tra un paese e l’altro.

Chiaramente essendo il ruolo della madre uno dei tasselli del sistema molto più grande in cui si inserisce il patriarcato, nel nostro paese continua a perpetuare indisturbato. Avremmo assistito alla stessa violenta indignazione se fosse stato un papà ad ammettere di non conoscere la taglia di scarpe dei figli? Di dimenticare snacks e bevande? O non sentire l’esigenza di chiamarli quando è lontano? Probabilmente no, per il semplice fatto che sono atteggiamenti pienamente accettati e giustificati. La loro presenza non la si da mai per scontata, così come la loro partecipazione attiva al carico mentale famigliare. Tutto ciò che invece arriva in più viene di solito elogiato con ammirazione e sorpresa, dal cambiare un pannolino ad andare ai colloqui scolastici, a occuparsi del vestiario. Sto generalizzando, ma fino a un certo punto. Il processo per arrivare a una parità genitoriale è in atto e sta già mostrando esempi nuovi di paternità, ma l’impostazione sacrificale e intensiva su cui si basa la maternità è tutta un’altra storia, difficile da riconoscere e comprendere anche dai papà più “progressisti”.

Ci sono alcune donne, tra un insulto e un commento sprezzante, che ringraziano Carlotta Cerri per averle fatte sentire meno mostri. Perché il giudizio prepotente della società si introietta in noi rendendoci le più spietate proprio verso noi stesse. Il nostro intero lavoro genitoriale si fonda sui sensi di colpa. Il senso di colpa di non esserci state con i primi passi, di non aver allattato abbastanza o non averlo fatto, di non aver reso ogni festa di compleanno unica e speciale, di non aver fatto abbastanza torte in casa, lavoretti, costruzioni, di non avere abbastanza immagini e ricordi di ogni fase della loro vita per poterci aggrappare a quelli quando avranno lasciato il nido e a noi non sarà rimasto altro. Vent’anni di vita in funzione di altri esseri viventi, senza più ambizioni personali che possano intralciare con le nostre priorità materne, senza sentire quasi più bisogni se prima non sono stati soddisfatti pienamente i loro, senza più cura e progettualità verso noi stesse, come donne. Sono loro i tiranti che sostengono l’intera impalcatura e leggere di una madre che è riuscita a tagliarli e nonostante questo la struttura è rimasta solida e stabile, crea disagio, invidia probabilmente, è una fortissima destabilizzazione.

Ricostruire il materno su un terreno che per secoli ci è stato vietato di calpestare è un atto di coraggio estremo, l’ennesimo che le donne contemporanee sono portate ad affrontare. Per ora questi arditi tentativi di poche continuano ad appiccare incendi, ma parlarne e mettere in discussione le fondamenta di un regime culturale è già a mio avviso un grande varco di speranza.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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