Dov’è casa?

Dov’è casa? Quale rapporto tra la cultura, i luoghi della formazione e le origini geografiche? Possiamo abitare in un luogo ma vivere, con il cuore, in un altro? E come gestire la curiosità, a volte al limite dell’invadenza, di chi ci attribuisce un’appartenenza altra rispetto a quella che sentiamo nostra? Ho sempre pensato che integrazione e accettazione facessero rima con educazione e formazione….

Incalzata su questi temi, ho trovato aiuto dalla lettura di “La chiave nel latte”, romanzo di Alexandre Hmine (Premio Studer/Ganz 2017 e Premio svizzero di letteratura 2019), che tocca la questione dell’appartenenza nel modo più profondo e radicale. A tratti con leggerezza, come solo gli occhi di un fanciullo permettono di fare; a tratti con la drammatica profondità di un adolescente che si pone, consapevolmente, domande ultime su se stesso nella società e sulla cultura circostante.

Il romanzo segue la crescita (fisica e soprattutto emotiva) di un giovane, nato da madre marocchina ma cresciuto in Svizzera e affidato sin dai primi mesi di vita alle cure di un’anziana donna, che abita in un paese ticinese di montagna e con la quale il bambino rimarrà fino agli anni dell’adolescenza. Elvezia, così il nome della donna, accudirà il giovane ‘come uno di loro’, insegnandogli il dialetto locale e cucinando per lui, di famiglia musulmana, la “luganiga”, la salsiccia tipica ticinese. Con grande apprezzamento da parte del giovane! Fino a quando, ricongiuntosi con la madre, egli si troverà, naturalmente, a rifiutare il piatto a base di maiale, iniziando a cogliere – allo stesso tempo – gli sguardi ‘curiosi’ degli altri attorno a lui, dal colore della pelle ‘scura’. Eppure, per il giovane la Svizzera rimarrà ‘casa’. Come non mangiare carne suina sarà parte della sua normalità. Ma senza per questo imparare l’arabo, mai! Pur tifando per la nazionale marocchina… Costituisce ciò una contraddizione?

Tra le settimane di vacanza trascorse in Marocco, la casa tra i monti di Elvezia e il campo di calcio ‘locale’ in Svizzera, dove avvengono anche i primi – presunti – ‘veri’ amori e esplodono le prime ribellioni, maturano sentimenti contrastanti, di attaccamento, straniamento, incomprensione ma anche riscatto, dove il filo sottile tra certezze e dubbi è in continua tensione. E dove l’equilibro è raggiunto anche grazie alla passione per la lettura. Così lo studio diventa riscatto: nel confronto con i grandi classici, nelle parole letterarie, negli esami universitari e nello spazio della cultura accademica in generale, il protagonista del libro arriverà a maturare la consapevolezza che le identità sono permeabili e fluide, soprattutto non sono auto-esclusive.

Qualche tempo fa ho avuto modo di chiedere a Alexandre Hmine che ruolo rivesta in Svizzera, dove circa un quarto della popolazione totale è costituita da stranieri, la scuola e come possa aiutare “i nuovi arrivati” a costruire ed accettare la complessità e stratificazione della propria identità. Credo che la forza delle sue parole non possa passare inosservata:

Come docente di italiano mi capita di riflettere insieme agli studenti sul tema della diversità, e ovviamente pure sulla similarità, tra culture. Inoltre attraverso i componimenti liberi, i ragazzi hanno l’opportunità di trasformarsi in “scrittori” e raccontarsi (ad esempio, raccontare che cosa può succedere nella casa di un ragazzo di origine indiana che oggi vive in Ticino o come vive e ragiona un ragazzo che ha genitori musulmani). La scuola assume, in tal modo, una funzione importante, forse la più importante, per favorire l’integrazione. Nelle classi con varie etnie e culture differenti, l’ambiente scolastico può diventare il luogo in cui le personalità, i caratteri, i pregi, e i difetti dei singoli individui così come le tradizioni si incontrano e ‘conoscono’. L’ora di italiano si presta molto bene a questo proposito, ma non è, e non deve, essere il solo momento di integrazione. Ad esempio, si possono organizzare incontri, manifestazioni, conferenze, dibattiti che toccano la tematica dell’Altro e della conoscenza reciproca favorendo il sorgere della consapevolezza, nei ragazzi, della natura fluida, liquida, stratificata e complessa dell’identità individuale. Certamente la questione identitaria e l’integrazione tra culture non può risolversi se, da un lato, l’autorità politica non mette in campo le risorse necessarie (per lavorare con classi meno numerose e per organizzare corsi specifici, ad esempio), e dall’altro le famiglie dei ragazzi non sono disponibili ad abbracciare progetti di integrazione”.

@foto dell’autore: credits di Scheldon Suter

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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