Generazioni in fiamme

Ho scoperto Cecilia Sala attraverso il suo podcast STORIES di Chora Media, con una nuova storia dal mondo ogni giorno, mai più lunga di dieci minuti. 

La sua capacità di sintesi, pur mantenendo i dettagli che rendono sempre le storie emotivamente coinvolgenti, emerge subito. 

La sua forza narrativa sta nello sguardo che pone verso i fatti e le persone che racconta, uno sguardo sempre privo di preconcetti, che si avvicina con sincera curiosità e voglia di capire. Cecilia Sala racconta l’umanità meno ascoltata, spesso immersa in conflitti e dittature che divorano tutta l’attenzione mediatica togliendo spazio ai singoli, a chi ci è dentro e che lei restituisce andando di persona a scovarli. 

È stata in Afghanistan, poco dopo il ritorno dei Talebani nell’estate del 2021, è stata in Iran e in Ucraina, più volte, spesso nelle zone più rischiose del conflitto. 

L’incendio, edito da Mondadori è il frutto dei suoi lunghi viaggi d’inchiesta per cercare e capire meglio tre generazioni incendiarie, tra Iran, Ucraina e Afghanistan. 

Ho accennato prima al suo sguardo, che trova nella narrazione scritta la sua massima espressione, perché riesce a restituirci la complessità delle realtà che ha incontrato. Come nel caso di Nabila, una campionessa di kick boxing iraniana.

“È una ragazza colta con un atteggiamento di perenne sfida che ha votato per i conservatori. Nabila è una giovane donna fedele alla Repubblica islamica e le piacciono le ragazze.(…) Quando passeggiavamo insieme per Teheran, guardava con fastidio le sue coetanee poco coperte e troppo attillate. (…) Ci siamo sentite il giorno in cui è morta Mahsa Amini, prima che cominciassero i cortei e quando internet funzionava ancora nel paese: era furente. (…) Erano tante le donne religiose traumatizzate il 16 settembre: in Iran esiste una porzione di popolazione radicale e militante e una porzione più ampia che sostiene la Repubblica islamica ma non è sicura sia giusto imporre il velo con la violenza a chi non vuole indossarlo, e pensa che una ragazza fermata in una stazione della metro e riconsegnata cadavere pochi giorni dopo alla famiglia sia un’oscenità, un’onta collettiva e un’enormità contro Dio.”

Il libro di Cecilia Sala ci restituisce vivido il coraggio comune di tre generazioni molto diverse tra loro, sia a livello culturale che sociale. Ma “la chiamata a reagire”, che si tratti di imbracciare un’arma e difendere il proprio paese, o scendere in piazza a protestare o ancora cercare clandestinamente i modi per continuare a studiare e a disobbedire, hanno per tutti una matrice comune: lo stesso rischio altissimo di perdere la vita. 

Tra le storie più toccanti in Ucraina c’è quella di Natalye , 36 anni, che lavora come maestra d’asilo. Da quando Putin ha iniziato a preparare l’invasione totale ha cominciato ad addestrarsi alla guerra in una foresta, sessanta chilometri a sud di Kyiv, in direzione di Odessa. “Il suo gruppo di chiama Orsi di Marussia, che è il nome della quarantenne a capo dei volontari, una veterana che ha combattuto nel corpo dei paracadutisti in Dombas. Marussia non insegna soltanto a sparare, ma a resistere nell’acqua ghiacciata o in un tunnel stretto fatto di pneumatici mentre, fuori, gli altri lanciano petardi nella tua direzione per simulare un combattimento in trincea. Di gruppi così ce ne sono in tutto il paese.”

Natalye e i suoi compagni non sono finiti al fronte ma la straordinaria mobilitazione di civili all’inizio della guerra è stato un messaggio di risolutezza molto chiaro, mandato non soltanto alla popolazione russa ma a tutti noi. Quelle centinaia di ore di addestramento hanno formato militarmente una popolazione di giovani, tra i quali, i più forti ed atletici, sono poi stati arruolati nell’esercito regolare. 

Tra questi c’era anche Roman, attivista ambientalista di 23 anni che organizzava proteste e sabotaggi e aveva fondato un’associazione chiamata “Save Protasiv Yar” per difendere una foresta situata nel suo quartiere, Protasiv Yar, appunto, da un gruppo di oligarchi che volevano abbatterla per costruire una distesa di palazzi di quaranta piani. Dopo due anni di rumoroso dissenso, nel 2021, Roman vince e Protasiv Yar è dichiarata patrimonio della città. Questa vittoria non lo risparmia dai numerosi nemici che si fa nel circuito politico e imprenditoriale della città, con minacce di morte sempre più dettagliate. 

Lui non ama particolarmente Zelensky, ma dal 24 febbraio, gli antichi rancori sembrano svanire di fronte a emergenze ben più gravi e Roman viene chiamato dalle stesse autorità ucraine che ha tanto contestato per dare un aiuto. Fonda una brigata di volontari che porta il nome del suo quartiere.

“Roman è utile per molte ragioni: è abituato a combattere, la sua lealtà alla causa e comprovata, da anni conosce le infiltrazioni russe in Ucraina, per esempio sa tutto degli oligarchi che hanno continuato a lavorare per Putin dopo il 2014.”

Roman Ratusshnyi è morto in combattimento a Izjum, d’estate, a 24 anni.

La giornalista, che ha partecipato al suo funerale a Kyiv, dove la gente era così tanta che non si poteva muovere le braccia, riferisce nel libro le parole che le confida una donna: “Putin perderà, ma la sua vittoria sarà aver tolto a un paese che odia i suoi cittadini migliori. I più intelligenti, i più generosi, i più coraggiosi. Qui li chiamano la generazione d’oro.”

Infine nell’ultima parte del libro, Cecilia Sala si concentra sull’Afghanistan, provando, attraverso le testimonianze raccolte, a riportarci lo shock di chi è cresciuto tra il 2001 e il 2021 e si è ritrovato catapultato in una realtà di cui conosceva solo terribili aneddoti di genitori e parenti, immagini quasi fantascientifiche di oppressioni e violenze difficili da credere. Attraverso il racconto di un regime integralista che impedisce a tutte le laureate di medicina di praticare, la giornalista allarga il raggio di comprensione della gravità, descrivendoci le imminenti conseguenze del processo di espulsione totale delle donne da alcuni ruoli lavorativi fondamentali. Per esempio la mancanza di donne poliziotte aumenta fortemente il pericolo di infiltrazione di kamikaze nei luoghi pubblici e di transito dove basta indossare un burqa e non si può più essere perquisiti dagli agenti di sorveglianza, per non parlare del rischio di morire di parto o di qualsiasi altra malattia in un contesto ospedaliero gestito esclusivamente da medici, di fronte ai quali moltissime donne tradizionaliste non si sognerebbero neppure di farsi visitare.

Nonostante questo le persone che incontra Cecilia Sala sono giovani uomini e donne irreversibili, che non si adeguano al regime, se non in forme minime di facciata. “A Kabul, nella città dell’Ovest di Herat e in quella del Nord di Mazar-e Sherif, ci sono zone grige e infiniti atti di ribellione che non fanno clamore ma cambiano le vite. Ci sono scuole femminili che sono rimaste aperte nonostante i divieti. I professori e le professoresse che continuano a insegnare su Skype e Zoom, di nascosto. I fratelli che stanno attenti in classe e appena tornano a casa ripetono la lezione alle sorelle. Ci sono quasi dottoresse, a cui è stato impedito di laurearsi che curano pazienti in segreto. Ci sono giovani che sposano le loro amiche perché senza un marito non si può fare quasi niente, neppure allontanarsi per più di 70 chilometri da casa, ma sono unioni fittizie e i finti mariti non chiedono in cambio il sesso, il bucato o il pranzo.”

L’incendio parla di generazioni spezzate, ma soprattutto di speranze, determinazioni e capacità di farsi voce collettiva, rumorosa e potente, per dire chiaro e tondo che ogni più terribile conflitto o sopruso può essere visto come uno stato di eccezione temporaneo e non il loro destino. 

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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