Guardare come atto creativo

In questa fase della mia vita sono rari i momenti in cui posso permettermi di prendere un mezzo pubblico da sola, senza occuparmi a intrattenere e ascoltare i miei due bambini che, come è giusto che sia, monopolizzano tutta la mia attenzione.
Quando accade, la semplice esperienza di spostarmi da un luogo all’altro si trasforma, i miei sensi prendono il sopravvento sulla ragione, bermi un succo di frutta acquisisce lo stesso piacere di una degustazione lenta e accurata in una cantina di vini toscana, le orecchie si tendono a captare stralci di discorsi altrui, lingue e toni differenti, risate sguaiate e scambi di battute silenziose, al telefono. Ma il senso che predomina sugli altri è inequivocabilmente quello della vista.
Subisco una sorta di possessione dello sguardo.

Henri Emile Matisse scrisse che il “vedere è già di per sé un atto creativo” e non posso che essere pienamente d’accordo con questa affermazione, perché riflettendo sulle storie che i miei occhi hanno intercettato nelle ultime settimane mi sono resa conto di avere potenzialmente a disposizione materiale sufficiente per un intero libro.
Ecco alcuni esempi.

Un sabato pomeriggio di alcune settimane fa sedendomi sul bus sento un signore vicino a me farmi i complimenti in tedesco per il mio vestito. Lo ringrazio e lui mi chiede se sono francese, gli rispondo di no e il mio specificare la nazionalità italiana lo anima ad avviare una conversazione in un italiano piuttosto fluente o meglio un lungo sfogo ove il mio unico ruolo è quello di annuire di tanto in tanto per permettergli di continuare.
Il tema del suo soliloquio verteva sull’apparente freddezza emotiva degli svizzeri, i cui traumi infantili, perpetrati di generazione in generazione, hanno dato vita a una comunità di egocentrici e anaffettivi nazisti.

C’erano due aspetti che stridevano con il suo liberissimo pensiero: il fatto che lui fosse svizzero e la sua immagine. Era un uomo alto e molto magro con una lunga barba bianca, un completo in lino beige con grandi bottoni in legno sulla lunga camiciola, sandali comodi e un tappetino da yoga sotto il braccio.
Mentre in sottofondo perpetrava la litania di invettive, che nel frattempo si erano ampliate a comprendere l’ambito educativo di insegnanti e genitori, la mia immaginazione ha cominciato a elaborare ipotesi su quella dualità incredibile: un uomo dall’aspetto tanto mite e sereno torturato da una rabbia così forte da rigettarla addosso alla prima sconosciuta che gli capita a tiro su un bus.

Ho provato pena per lui al pensiero di quante energie avesse investito nel tempo per fare propria una filosofia basata sull’accettazione serena e sulla capacità di lasciare andare il male che non l’aveva salvato da quel suo vuoto affettivo. Ho visto un uomo tenuto in ostaggio dal suo passato, la cui frustrazione invece di indignarmi come probabilmente lui avrebbe voluto, aveva fatto nascere in me un senso di tenerezza infinita.

Qualche giorno dopo, tornando dalle mie lezioni serali, mi sono imbattuta in un’altra scena con una tale potenza drammatica da dovermi forzare a spostare lo sguardo altrove. Una giovanissima coppia sedeva di fronte a me. Lei evidentemente sofferente teneva la testa abbandonata sulla spalla di lui che portava gli occhiali da sole nonostante fuori fosse quasi buio. Ogni tanto il corpo della ragazza sembrava colpito da una fitta di dolore, che lei cercava di celare sotto segnali appena percettibili, come la mano intrecciata a quella di lui che stringeva più forte, o lievi sospiri, come tentativi di resistere respirando più a fondo.
Il suo viso però non lasciava adito al dubbio. Con l’arrivo di quelle ondate cedeva a un’espressione contrita, apriva gli occhi quasi smarrita, sollevava la testa per qualche secondo e poi sfinita tornava ad accucciarsi sulla spalla del suo compagno. Non riuscivo a capire chi tra i due soffrisse di più. Era commovente il disagio e l’agitazione con cui lui reagiva a quel dolore. Si guardava intorno smarrito, come a temere che qualcuno intorno a loro potesse sentirsi disturbato da quella sofferenza. Ma restava lì, con il suo viso sbarbato e i lineamenti infantili ancora visibili, ad affrontare impotente una situazione molto più grossa di lui.
Scesero al capolinea, insieme a me, li osservai ancora per qualche istante allontanarsi dalla fermata del tram e attraversare la strada molto lentamente, lei che si premeva una mano sulla pancia e con l’altra di sorreggeva a lui.
Serviva altro alla mia vista per leggere la storia di quei due?

In questo ultimo esempio non mi trovavo su un mezzo pubblico ma in un negozio che vendeva esperienze adrenaliniche come voli in parapendio, paracadute, rafting e simili. Aspettavo che mio marito tornasse dal suo volo quando mi accorgo di questa signora seduta di fianco a me che mi guarda sorridendo come di chi non aspetta altro che uno scambio di sguardi per intraprendere una conversazione.
Mi chiede in inglese se anche io sto aspettando per buttarmi con il parapendio e dopo averla informata che sto solo aspettando mio marito, tira fuori il suo telefonino e comincia a mostrarmi foto dei suoi voli, in particolare sembra andar fiera di un’esperienza invernale, immersa nel bianco di cime altissime, infagottata sotto un piumino scuro almeno di due taglie più grosso della sua. Mi dice inoltre che il giorno prima aveva fatto due voli e che stava aspettando per provare il lancio dall’elicottero con il paracadute.

Anche in questo caso, la sua immagine distorceva fortemente con i suoi racconti. Era una signora tra i cinquanta e i sessant’anni, vestita con abiti tipici indiani, fatti di stoffe cangianti e orli dorati, il velo le copriva tutto il capo e lo si poteva scorgere anche sotto il casco nelle foto che mi aveva mostrato. Aveva un’entusiasmo così vivo e infantile mentre mi raccontava quanto le piacesse e come non riuscisse a smettere che di nuovo la mia memoria ha rapito quell’essere umano così eccentrico, riportandomi a lei in vari momenti delle mie successive giornate.

Da dove veniva? Era in vacanza o abitava in Svizzera? Non doveva dare credito a nessuno per tutti quei voli, considerando il suo vestiario così tradizionale e la sua età? Non c’era un compagno, un figlio, un’amica che si preoccupavano per lei? Quando aveva trovato il coraggio di provare la prima volta? E Perché? Cosa provava a planare nell’aria per renderla così dipendente da quella esperienza?

Io non lo so se capita solo a me di venire letteralmente travolta dalle storie appena la mia vista esce dalla sfera famigliare in cui circuita quotidianamente. Non so perché mi assalgono volti e sguardi con una tale forza drammatica. Forse perché a osservare come si deve è proprio vero che ognuno si porta addosso la sua storia e non è poi così necessario farsela raccontare a parole.
Galileo Galilei scrisse: “Non basta guardare, occorre guardare con occhi che vogliono vedere, che credono in quello che vedono.”

Io ho scelto di credere a quello che vedo, e di mettermi nella condizione di accogliere l’affascinante mistero che quei brevi sprazzi illuminano sulla vita degli altri. Perché mi diverte e mi emoziona più che piantare la testa dentro un piccolo schermo a far scorrere freneticamente ciò che gli altri hanno deciso consciamente di mostrare di sé. Trovo molto più intrigante scorgere quello che sfugge al controllo e perdersi a ipotizzare intrecci e finali stupendomi ancora di quanta umanità viva, sofferente, audace e impaurita ci sia davanti a noi. Un mondo reale e immenso di emozioni contrastanti che aspettano solo il nostro sguardo.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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