Il potere della lingua nell‘educazione di genere

Da quando vivo all’estero la mia lingua ha acquisito ancora più potere. Mi permette di scrivere con un’urgenza prepotente che è emersa solo dopo aver lasciato l’Italia, perché è diventata il mio canale espressivo primario. Mi tiene connessa con il mio passato culturale e si alimenta giornalmente attraverso l’utilizzo attento e profondo che ne facciamo in famiglia.  Posso azzardare a definirla la mia patria e come tale intrattengo con lei una relazione di amore e odio. Quando la insegno ai miei studenti adulti, per esempio, provo spesso un timido orgoglio nel vedere quanto apprezzino la varietà e la musicalità delle parole, e mi diverte la sorpresa che subentra man mano che il livello linguistico cresce e prendono ahimè coscienza del pesante fardello grammaticale che si porta dietro. Eppure questa melodiosa, ricca e complicata lingua presenta una grave falla: la rigidità verso i cambiamenti inclusivi legati alla parità di genere. La colpa ha origine come sempre nel contesto socio-culturale del nostro paese. La definizione patriarcale delle nostre strutture sociali, per quanto dibattuta da tempo e in differenti contesti, resiste e influenza inevitabilmente il linguaggio. 

L’espressione “sessismo linguistico” che venne elaborata per la prima volta negli Stati Uniti negli anni 60-’70, venne introdotta in Italia nel 1987 con l’uscita del rivoluzionario volumetto di Alma Sabatini dal titolo Il sessismo nella lingua italiana. Lo scopo di questa indagine era di natura politica, fu infatti pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con lo scopo di porre l’attenzione sull’importanza di un corretto utilizzo del linguaggio per evitare disparità di genere. Il testo prendeva in esame vari aspetti lessicali, dall’utilizzo di espressioni evidentemente offensive e discriminanti fino alle cariche e titoli professionali declinati al femminile, tutt’ora oggetto di una “vivace” corrente di opposizione.

Sono passati trentacinque anni da questa prima proposta di evoluzione lessicale e semantica e neppure sui vocaboli grammaticalmente più immediati come: ministro-ministra, architetto-architetta, avvocato-avvocata, sindaco-sindaca, tanto per citarne qualcuno, si è trovato un comune accordo collettivo. 

Il problema del linguaggio discriminante è molto ampio e sfaccettato e ingloba tutti gli ambiti del contesto sociale. 

Partiamo dalla scuola, dove hanno fatto scalpore alcuni testi scolastici in cui “i papà lavorano e leggono e le mamme stirano e lavano i piatti”. C’è chi sostiene che sono sempre più rari questi casi e spesso frutto di errori editoriali isolati. Io personalmente trovo inconcepibile che se ne trovino ancora su pubblicazioni recenti. Perché un libro viene scritto per essere comprato e sapere di scuotere l’opinione pubblica per un singolo errore di valutazione penso basterebbe da sé a mettere in guarda qualunque editore dal commetterne ancora. Il punto sta proprio qui: interessa abbastanza evitare discriminazioni e cliché vecchi di cinquant’anni ma ci sono sempre questioni più urgenti di cui occuparsi. La scuola per fortuna sta dando anche segni positivi di grande sensibilità sul tema. Sempre più esperti in socio-linguistica svolgono laboratori di formazione per insegnanti e incontri con gli studenti proprio per veicolare un sano percorso di educazione al linguaggio inclusivo. 

L’ambito famigliare è un altro territorio minato per le nuove generazioni. Noi genitori, figli e fratelli, siamo tutti così plasmati inconsciamente da un vocabolario comune di espressioni ritenute innocue che non ci rendiamo conto del male che infliggiamo o che ci hanno inflitto. 

“Sei brutta quando fai i capricci”, “Sei così carina quando sorridi”, “Sei proprio una vera donnina”, “Non urlare che sta male”, “Stai composta che sei una signorina”,“Ma chi ti prende a te?”, “È un maschiaccio, non si comporta da femmina” e via dicendo. Per non parlare di tutti i detti popolari ancora fortemente in uso colloquiale con uno spirito ironico che ormai fanno ridere ben pochi.

Carolina Capria, scrittrice per ragazzi e attivista, ha scritto un libro intitolato Femmina non è una parolaccia e credo che non esista titolo più azzeccato per trattare la questione. Quanti di noi si possono riconoscere in questa definizione dispregiativa da parte di compagni di classe per rimetterci in qualche modo al nostro posto. Che si trattasse di un gioco di gruppo misto, di una competizione, di una sfida, c’erano i maschi: nome che definisce il sesso di una persona e poi le “femmine”: nome che definisce persone tendenzialmente più deboli, insicure, da deridere e prendere in giro. 

Il linguaggio persiste a definirci e giudicarci in quanto donne. Gli insulti degli haters sui social media evidenziano un altro inquietante problema legato alla lingua. Le diverse tipologie hanno tutte un elemento in comune: puntare sempre sull’oggettivazione del corpo femminile. Che si tratti di minacce di stupro, allusioni alle conseguenze del fare troppo o troppo poco sesso o giudizi fisici sulla persona, sempre lì si finisce a parare. Siamo prima di tutto corpi, che devono compiacere, mostrarsi entro i canoni prestabiliti o semplicemente stare dove stanno e tacere. 

Se, come sostiene la socio-linguista Vera Gheno “la lingua non è dei potenti, né delle accademie, ma nostra ed è l’uso della massa che cambia la lingua” è evidente dove ricada gran parte della responsabilità. L’attenzione e la sensibilità verso un linguaggio meno discriminante parte dalla gente, solo a quel punto le accademie potranno prendere atto dei cambiamenti e ufficializzarli. 

In questo imminente otto marzo il più sentito augurio che sento di fare a tutti noi è quello di riuscire a dare alle parole il potere di cambiare il nostro sguardo sugli altri.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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