Itaca per sempre

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Il concetto di Patria e identità è già stato ampliamente trattato su questo blog, ma è necessario ripartire da qui per descrivere l’esperimento letterario realizzato da Luigi Malerba nel suo romanzo del 1997 “Itaca per sempre”.

La storia ufficiale la conosciamo tutti: Ulisse torna in patria sotto mentite spoglie per architettare la sua impietosa e sanguinolenta vendetta contro i Proci, che da anni dimorano nella sua corte, razziando in banchetti lussuriosi tutte le provviste del regno. Durante i suoi giorni da finto mendicante si fa riconoscere dal figlio Telemaco, dalla nutrice Euriclea e secondo lo scritto di Omero persino il cane Argo, ormai alla fine dei suoi giorni riconosce il padrone prima di lasciarsi morire. L’unica che volutamente viene tenuta all’oscuro dell’ identità di Ulisse è la moglie Penelope. Non risulta difficile capire le ragioni che spingono Ulisse a non rivelarsi: il sospetto sulla presunta lealtà della moglie lo attanaglia e il bisogno di accertarsi della reale situazione tra lei e i Proci è più forte del desiderio di riabbracciarla.

Ciò che Luigi Malerba ci mostra è tutto quello che Omero tace. Il romanzo alterna la voce di Ulisse a quella di Penelope nei giorni precedenti alla strage fino ad arrivare al climax dello svelamento in cui la regina di Itaca piena di dubbi e rancore rifiuta di credere che quel mendicante macchiato da così tanti cruenti delitti e privo di pietà sia il suo amato marito perso vent’anni prima. 

La riflessione che stimola questa prospettiva del tutto nuova del rapporto tra Ulisse e Penelope mi ha nuovamente confermato quale sia, dal mio punto di vista, il valore più alto della letteratura. Possiamo occuparci ad analizzare lo stile, l’ingegno nel tracciare l’intreccio della storia, l’introspezione dei personaggi, l’originalità della scrittura, ma ciò che conta realmente è quanto il libro sia in grado di parlare a tutti noi, facendoci sentire parte di un pensiero universale, di dinamiche psicologiche o sociologiche che abbiamo vissuto o stiamo vivendo. Siamo noi quelli di cui parla l’autore, ci sentiamo direttamente coinvolti e ci aspettiamo risposte. 

Nel romanzo di Malerba emergono due quesiti a mio avviso attualissimi: Itaca, intesa come patria e casa, quella cui ha anelato il protagonista dell’Odissea tra infiniti ostacoli e dei avversi, è sempre Itaca? E lui, viaggiatore, avventuriero, che ha visto e fatto cose così lontane dal suo regno, così difficili da descrivere e raccontare attenendosi alla realtà, è sempre lo stesso uomo, marito e re di vent’anni prima?

Penelope, pur avendolo riconosciuto all’istante come era ovvio che fosse, se lo chiede per tutto il tempo. Perché al rancore per la mancanza di fiducia che il marito dimostra, cresce in lei anche un immaginario di eventi e sentimenti in cui suo marito è rimasto coinvolto di cui lei non sa nulla, che apparterranno per sempre a un mondo in cui non potrà accedere e che inevitabilmente hanno lasciato il segno nel modo di agire e pensare di Ulisse. 

I due coniugi risultano piuttosto ingenui nel credere di potersi ritrovare dopo vent’anni di assenza come si erano lasciati. Entrambi hanno compiuto un viaggio: esteriore, tutto fatto di azione e avventure quello di Ulisse e uno interiore, di attesa, pensieri estenuanti e grande resilienza quello di Penelope. 

La patria lasciata da Ulisse non è più la stessa. È un luogo estraneo, invaso e sporcato, un’isola orfana di re, allo sbando, senza più punti e figure di riferimento solidi. Ed è anche un luogo troppo monotono per il nostro eroe, che sente da subito il richiamo incessante del mare. Sarà in grado di restare? Si chiede Penelope, dopo tutto quello che ha vissuto. Troverà pace tra le sole braccia di sua moglie, a farsi conoscere e accettare da un figlio sconosciuto e a governare un regno in pace, privo di sfide insormontabili e conquiste consacrate al mito?

Ulisse non voleva partire per la guerra, tentando anche con bassi sotterfugi di evitarlo, ma poi ha dovuto cedere al dovere e andandosene non ha lasciato soltanto una famiglia e un regno, ma sé stesso, o meglio l’uomo che era stato fino a quel momento.

E qui la bravura dello scrittore permette a noi lettori un salto che ci distacca dalla vicenda omerica, rendendocela solo più un pretesto simbolico per pensare a noi e ai nostri viaggi.

In quanto expat da molti anni, mi sento direttamente coinvolta nella riflessione, perché ho capito nel tempo quanto la lontananza possa cambiare il proprio concetto di patria e la propria stessa identità. Quando torno in Italia sento di non aderire più a tanti aspetti della vita pubblica e privata del mio Paese. È cambiato il mio modo di percepire il senso di appartenenza che si è fatto fluido e sfaccettato, creando un miscuglio tra culture, modi di porsi, prospettive e visuali. E sono certa che anche le persone più vicine della mia famiglia e nella mia ristretta cerchia di amici con cui ho mantenuto negli anni il contatto nonostante la distanza, hanno percepito alcune trasformazioni in me. È inevitabile e giusto accettare il cambiamento, se non si vuole restare schiacciati dal peso della nostalgia. Rendersi materiale malleabile e concederci di cambiare è la più grande risorsa di cui disponiamo. È ciò che nel passato ha permesso alla nostra specie di sopravvivere ed è ciò che tutt’ora ci permette di superare battaglie inimmaginabili e non soccombere.

Perché il viaggio, come Penelope ci insegna non è solo e necessariamente partire col corpo e lasciare qualcuno e qualcosa. Anche stando fermi, lottando per restare, si intraprendono viaggi pericolosi e pieni di ignoto. Scavare nel dolore più atroce come la perdita di una persona cara, alla ricerca di uno spiraglio di luce a cui aggrapparci è un viaggio che ci cambia per sempre. Così come superare una malattia o la perdita di un lavoro. Le fasi stesse della vita sono viaggi di profonda crisi e cambiamento. Ci vuole lo stesso coraggio dimostrato da Ulisse con le sirene per guardarsi davvero dentro e capire cosa non funziona più. 

Credo che quello che voleva davvero comunicarci Luigi Malerba con il suo “Itaca per sempre” è che anche gli eroi e le eroine devono fare i conti con la realtà e levando la scorza dura dei prescelti che il mito ha plasmato loro addosso, scopriamo essere umani come noi, alle prese con la stessa paura di non riconoscersi più. 

Alla fine Ulisse rifiuta la spinta alla fuga e decide di restare. Perché Itaca è la sua casa, e non importa se non è più la stessa, come non lo è sua moglie, né lui stesso. Lui è un eroe e la sua storia deve trovare una conclusione, il più risolutoria possibile.

Noi invece, umani erranti e imperfetti, siamo destinati a continue trasformazioni, come piccoli camaleonti in grado di prendere i colori dell’ambiente circostante. E quante volte ancora dovremo lasciare, ricominciare, affrontare tentazioni e ciclopi, cullandoci con l’immagine della nostra Itaca che forse non raggiungeremo mai. 

Va bene così, che fretta abbiamo di tornare a casa quando davanti abbiamo lo sterminato mare ad aspettarci. 

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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