L’ascolto empatico e la scrittura di Rachel Cusk

Quante volte abbiamo sentito l’urgente bisogno di confidarci con qualcuno su un problema o uno stato d’animo che da soli faticavamo ad affrontare?

La dinamica che segue è ciò che nella maggioranza dei casi si verifica: abbattuti gli argini del pudore, la nostra piena di parole raggiunge il nostro interlocutore e inevitabilmente va a sollecitare anche la sua sfera più intima. Cosa succede a questo punto? In meno di tre minuti il  nostro sfogo verrà interrotto e contrapposto a quello dell’ascoltatore che, sfiorato in qualche punto della sua storia personale, sentirà a sua volta l’impellente necessità di «contribuire» riversando sull’altro le sue sciagure.

Qual è il risultato di questo scambio fallimentare? Nessuno dei due, per quanto possa durare la conversazione, si sentirà meglio alla fine: né compreso, né semplicemente ascoltato, che è poi la necessità primaria di tutti noi.

Esistono soluzioni a questo problema, già ampiamente affrontate e applicate nelle tecniche di Mindfullness, ma non sono semplici né istintive. Si chiama ascolto empatico o egoless e richiede uno sforzo non indifferente alla nostra mente per evitare di ricadere puntualmente nello stesso errore: sovrapporre  la nostra vita a quella che ci viene offerta in ascolto. 

I vantaggi sono numerosi: innanzi tutto permettiamo alle nostre relazioni umane di raggiungere livelli di connessione e fiducia molto più profondi, ma soprattutto permettiamo a noi stessi di rifletterci nelle altre storie, cogliendo sfumature, prospettive, modi di agire che non ci riguardano direttamente ma possono offrirci uno sguardo diverso su ciò che invece ci appartiene.

«Mettersi nei panni dell’altro» non è forse quello che facciamo leggendo un romanzo? Non possiamo intervenire  sulle vicende dei personaggi, non possiamo interromperli dicendo: -E io cosa dovrei dire allora?- o un più generico -Anch’io ho un sacco di problemi in questo periodo-. 

Possiamo solo farci trasportare dalla corrente, dentro il flusso vorticoso delle loro vite e nei casi più fortunati congedarci con qualcosa in più, un piccolo mattoncino di consapevolezza da aggiungere al nostro muro, quello che ci protegge e ci sostiene nelle vicissitudini dell’esistenza. Che sono poi le stesse per tutti noi: abbandoni, fallimenti, perdite, senso di inadeguatezza, paura e rabbia, ma che leggerezza nel mettere a tacere il nostro ego e imparare semplicemente ad ascoltare.

Siamo circondati di materiale umano preziosissimo e gli scrittori lo sanno bene, perché attingono (i più discreti) e rubano (i piu spudorati) costantemente. Non c’è bisogno di reinventare la vita più di tanto per scrivere una buona storia. Basta osservare e lasciare che la vita arrivi a noi.

Questo è esattamente l’operazione letteraria che compie Rachel Cusk nel suo romanzo Resoconto, primo volume di un trittico pubblicato in Italia da Einaudi Stile Libero. 

Si può sintetizzare la trama in poche righe: una scrittrice anglosassone si reca ad Atene per tenere un corso di scrittura. A partire dal viaggio in aereo e poi durante il suo soggiorno fa vari incontri e riporta, in un dettagliato resoconto appunto, le conversazioni e a volte i monologhi dei suoi interlocutori.

La protagonista non interviene quasi mai, se non direttamente interpellata, ma le sue risposte sono sempre scarne, restano in superficie e rigettano l’approfondimento. Il suo personaggio è apparentemente passivo, non determina capovolgimenti nell’intreccio, virate, colpi di scena. Si fa puro testimone delle vicende degli altri.

La bravura di questa autrice sta proprio nella sua capacità di riportare fatti, frammenti minuscoli di un intero episodio, aneddoti che potrebbero essere tranquillamente archiviati nella memoria come non significativi e renderli altamente simbolici e universali.

Si chiude il libro e la prima sensazione è quella di non aver capito dove l’autrice volesse andare a parare. Poi con il passare dei giorni riemergono immagini, anche solo oggetti o segni che sono stati pretesti per raccontare la vastità e complessità di un’esistenza. Un canto a squarciagola tratto dalla Carmen può svelare il tradimento di un marito mentre si fa la doccia o un pannello di vetro sul soffitto che, da oggetto di sofisticato design invidiato dagli ospiti di una lussuosa cena, diventa simbolo della disfatta, cedendo sotto il peso della pioggia e portando caos e distruzione sopra un finto e fragile status sociale.

Rachel Cusk è una scrittrice affermata e sa come giocare con la parola e catturare la nostra attenzione, facendoci credere che ascoltare gli altri sia un’azione semplice, quasi banale e racchiuda sempre grandi sorprese. Sappiamo tutti per esperienza personale che non è così.

Non sempre abbiamo buone storie da regalare e ricevere. A volte dobbiamo limitarci ad accogliere nostro malgrado sproloqui di lamentele senza capo né coda. Non ha importanza, ci verrà comunque ricambiato il favore, prima o poi. Perché siamo tutti indistintamente esseri in perenne conflitto con noi stessi o verso qualcosa o qualcuno.

L’importante, ci insegna Rachel Cusk, è mettersi sempre e comunque in posizione comoda e possibilmente in silenzio. Si possono aprire mondi inaspettati a interessarsi davvero all’altro, punti di vista, sofferenze e ingiustizie atroci che dal nostro privilegiato e sovrastante piedistallo non avremmo neppure immaginato.

Questo per concludere è l’obiettivo che cercherò di perseguire anche in questa rubrica Intersezioni: mantenere uno sguardo aperto verso i segni che la realtà ci mostra e trovare gli spazi in cui ci possiamo riconoscere tutti, al di là del proprio vissuto, ma come appartenenti alla stessa bizzarra razza umana e alla sua affascinante complessità.

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