Alcune settimane fa, alla fine di una breve vacanza in Italia, sono rientrata a Zurigo con il treno, o meglio i treni. Per mia sfortuna sono capitata in uno di quei cosiddetti “giorni neri” di Trenitalia, per intenderci uno di quelli in cui vorresti non essere mai salita su un vagone.
Il mio lungo viaggio della speranza è cominciato nella piccola cittadina di Fossano, in provincia di Cuneo, da dove avrei dovuto raggiungere Torino, per poi proseguire a Milano e infine approdare a Zurigo.
Avrete già intuito che le cose non sono andate esattamente così.
Nel bel mezzo di un campo, nei dintorni di Trofarello il treno si ferma. Nessuno dei passeggeri si scompone particolarmente. Capita spesso di dover aspettare il proprio turno per entrare in stazione, ma dopo dieci minuti di assoluta immobilità ci si comincia a scambiare sfuggevoli sguardi interrogativi.
Il puntuale annuncio del capostazione rincuora per qualche istante tutti quanti. Si tratta dell’ennesimo guasto tecnico, questa volta non del treno ma direttamente della stazione. Suona strano, ma ognuno torna al proprio cellulare in attesa di ripartire nel giro di pochi minuti, che piano piano diventano trenta, poi quaranta e infine cinquanta. Cinquanta minuti di ritardo su una tratta di appena un’ora.
Primo grande problema: tutte le persone che avevano coincidenze da prendere le hanno perse.
Approdiamo finalmente alla stazione di Trofarello e qui incappiamo nella seconda grande sorpresa: il treno non riparte più. Tutto spento, personale di bordo svanito come sotto un incantesimo, una situazione paradossale e inquietante che si risolve solo attraverso un passaparola tra passeggeri che capiscono che l’unica azione in loro controllo è scendere.
La biglietteria, con una povera impiegata dagli occhi sbarrati di paura, senza risposte, viene presa d’assalto e man mano che i minuti avanzano l’incantesimo si espande sul tabellone cancellando uno dopo l’altro qualunque mezzo di transito nella stazione.
Ci ritroviamo impossibilitati a raggiungere Torino via treno, nessun mezzo alternativo di emergenza. Comincia a scatenarsi la rabbia collettiva, compresa la mia che realizzo di aver perso ormai inesorabilmente anche la mia coincidenza per Zurigo.
Chiamo disperata mio padre che vive in città a venti minuti da Trofarello e lo imploro di venirmi a recuperare per permettermi di continuare il mio viaggio. Grazie a quel sant’uomo mi risparmio almeno i soldi del taxi su tutti quelli che ho dovuto rispendere per ricomprare i biglietti successivi.
Ma perché sono finita a raccontarvi delle mie disavventure ferroviarie?
Perché ritengo importante quello che è successo dopo, alla sera, quando stanca, arrabbiata e trafelata sono arrivata in classe dai miei studenti. Ho preso un bel respiro, cercando di scacciare tutti gli improperi che vorticavano nella mia testa e ho proposto ai miei studenti un semplice esercizio per rompere il ghiaccio: pensate alla prima parola che vi viene in mente pensando all’Italia. Estate, pizza, mare, sole, arte, sono i sostantivi che si ripresentano puntualmente con ogni gruppo, ma questa volta l’ironia del caso ha voluto chiudere la mia pessima giornata con l’ultima sorpresa: uno studente sceglie la parola treno.
Potete immaginare il mio trasalimento e la curiosità di voler subito approfondire il suo pensiero.
Lo studente in questione mi ha raccontato con un entusiasmo contagioso di aver fatto un lungo viaggio in treno anni fa da Zurigo a Trapani e che per lui è stata la più bella esperienza della sua vita. Trenta ore in totale, con vari stop nei principali luoghi di interesse turistico lungo la tratta e nessun problema di ritardi e cancellazioni, o meglio, nessun imprevisto degno di essere menzionato. Da allora, per lui, l’immagine più simbolica e positiva legata all’Italia è quella del treno.
E finalmente, dopo questo lungo preambolo siamo arrivati al nocciolo della questione. Ho riflettuto molto su questo scambio di percezioni così diverse e ho realizzato, confrontandomi anche con altri italiani, che esistono di fatto due Italie: quella senza tempo, da godersi con calma e quella che deve stare dietro ai ritmi della quotidianità e si tratta di due esperienze diametralmente opposte.
Nello scambio di opinioni con il mio studente, dietro ai nostri ruoli, si nascondeva un mondo intero: l’italiana disillusa e arrabbiata con il suo paese che vive all’estero e lo straniero profondamente sedotto da quella “dolce vita” che ancora i turisti si ostinano a ricercare e che per noi locali si è spogliata ormai di qualunque lucentezza, richiamando solo più una scena cinematografica sbiadita e molto vintage.
Non fraintendetemi, gli italiani sanno ancora riconoscere e godersi le eccellenze del nostro paese: il buon cibo, la convivialità, le bellezze paesaggistiche e la capacità di ricreare sempre un clima di festa e gioia condivisa in qualunque più piccola sagra di paese.
Ma vivere in Italia rimane ben altra cosa, doversi affidare ai mezzi pubblici per raggiungere puntuali i posti di lavoro scioglie istantaneamente quella patina di spensieratezza, svelando tutte le corazze dure di chi resiste ogni giorno contro la frustrazione.
Nessuna di queste due Italie però deve o può eliminare l’altra. Hanno entrambe diritto di essere perché entrambe reali. Forse possono contagiarsi un po’ di più, mostrando a chi si deve scontrare con la difficile quotidianità che il potere del suo fascino non è ancora scalfito. Dall’altra parte conoscere le contraddizioni interne di un paese bellissimo e molto complesso può aiutare chi lo frequenta solo per turismo a coglierne le sfumature più profonde, ripulendolo un po’ della sua immagine macchiettistica e restituendogli tutta la complessità e la dignità che merita.