Migrazione e senso di appartenenza: accogliere non basta

La figura del migrante, clandestino o regolare, infrange schemi consolidati, modi di vedere e di pensare la realtà, evoca fantasmi e paure solo apparentemente sopite, fa scattare meccanismi sociali di difesa nelle nostre società in crisi.

Jacques Derrida, in Cosmopoliti di tutti i paesi ancora uno sforzo!, chiedendo a chiunque di coltivare l’etica dell’ospitalità, scrive: “con il pretesto di lottare contro un’immigrazione travestita da esilio o in fuga dalla persecuzione politica, gli Stati respingono sempre più spesso le domande di diritto d’asilo. Anche quando non lo fanno sotto la forma di una risposta giuridica esplicita e motivata, lasciano spesso che sia la polizia a fare la legge…”

Il fenomeno della migrazione è da sempre esistito, è parte integrante della storia del genere umano. 

La Dichiarazione Universale dei Riritti dell’Uomo afferma che ogni individuo ha il diritto di muoversi, risiedere e lasciare qualsiasi paese. Purtroppo il fatto che vi sia un diritto a emigrare da uno Stato non implica che vi sia un diritto corrispondente ad immigrare in un altro Stato migliore di quello di partenza, poiché gli Stati non hanno l’obbligo di far entrare chiunque.

Nella mia attività professionale spesso mi sono occupato di aiutare le persone immigrate in un percorso di integrazione e quindi ho potuto ascoltare le loro ricche storie. 

Solitamente pensiamo alle persone immigrate come persone poco qualificate, come potenziali rivali in ambito professionale. Tra le persone che ho incontrato vi erano persone poco qualificate e persone più che qualificate ed impossibilitate ad avere riconsocimento dei propri titoli. Molte di queste persone si sono trovate spesso ad accettare lavori con una bassa o non adeguata retribuzione. Spesso mi dicevano di essere disposti ad accettare qualsiasi lavoro pur di lavorare. In questa condizione di precarietà la persona migrante può vivere una tale sofferenza da compromettere il suo stato di salute psichica. Ho ascoltato storie di persone che avevano scelto di partire perché volevano vivere nuove opportunità, conoscere nuovi mondi. E ho anche ascoltato storie di persone che avrebbero scelto di rimanere nella propria terra ma le condizioni economiche o la sicurezza del proprio vivere non permettevano il soddisfacimento di un vivere civile. Pertanto, molte delle persone che ho incontrato, hanno dovuto elaborare la separazione dai propri affetti, l’esperienza di un  viaggio lungo e doloroso per poi trovarsi in un nuovo paese pieno di incognite. In queste situazioni è facile avere vissuti di profondo disagio espressi con ansia o angoscia e a volte anche con l’esordio di importanti sofferenze psichiche.

Dobbiamo pensare che spesso la persona immigrata si sente osservata, in una realtà nuova dove deve ricostruire una vita, una nuova vita. La solitudine, il senso di inferirorità sono vissuti spesso centrali nella loro narrazione, così come la sensanzione di sentirsi di troppo. Ciò fa riflettere sull’importanza del senso di appartenenza.

Quando si perde il senso di appartenenza ci si può sentire abbandonati in vita, senza riparo. La filosofa Maria Zambrano descrive questo stato del sentire come la condizione propria dell’esiliato. Una situazione più misteriosa fra tutte quelle che si verificano nella condizione umana. In essa infatti l’essere si scopre, viene allo scoperto, torna al grado zero del puro stare in vita, del semplice vivere rinchiusi col proprio essere, soli nell’inferno del tempo, che batte sul posto senza poter passare. In questa radicale epochè (situazione in cui “è sparito il mondo, ma il sentimento che ci radica in esso, no”, scrive Zambrano) riemerge nella sua forma più tragica quel “sentire originario” che è l’a-priori di ogni sentire: sentire il puro e semplice “esser-qui”, sentire il “ci” del proprio esser-ci, la sua misteriosa ragione, la nostra sconosciuta presenza. Forse la sola appartenenza a sé stessi.

Ma sappiamo che la nostra identità non la scopriamo e non la costruiamo stando isolati, oltre al dialogo con noi stessi abbiamo bisogno di dialogare con altre persone. Come scrive Habermas: “la mia identità dipende in modo cruciale dalle mie relazioni dialogiche con altri”. Noi definiamo sempre la nostra identità dialogando, e qualche volta lottando, con le cose che gli altri significativi vogliono vedere in noi, e anche dopo che ci emancipiamo da questi altri, ad esempio i nostri genitori, ed essi scompaiono dalla nostra vita, la conversazione con loro continua, dentro di noi, finché esistiamo.

Capita che alcune persone emigrate siano accompagnate dalla propria famiglia, io ho incontrato più persone sole, che oltre a pensare al loro sostentamento individuale, la propria famiglia si aspettava da loro un sostentamento economico perché certa che il loro caro è approdato in una terra ricca e accogliente.

Una tale realtà vissuta crea, nella persona emigrata, tensione, sofferenza e purtroppo, a volte, anche patologie psichiche o riacutizzazioni di patologie preesistenti.

Credo sia necessario ricordare a tutti noi che viviamo realtà diverse, vite normali e lontane dalle storie di migrazioni narrate in televisione o lette sui giornali, che l’Occidente ha subito e sta subendo un cambiamento sia sul piano della demografia sia in termini qualitativi e quantitavi. Credo sia utile ricordare che la migrazione è un atteggiamento che gli esseri umani hanno da sempre adottato per migliorare la propria condizione socioeconomica e le proprie condizioni di vita. A volte si sono trasferiti temporaneamente a volte definitivamente.

Oggi tutti noi utilizziamo il paradigma bio-psico-sociale come modalità per capire se siamo in salute e in equilibrio. L’OMS ha definito, per la prima volta nel 1948, il concetto di salute come uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale. Pertanto, è importante considerare anche per la persona migrante che vogliamo accogliere e che dobbiamo accogliere gli aspetti contestuali in cui vive, favorire le relazioni sociali e rispettare gli aspetti culturali e linguistici.

Ho incontrato molte persone con storie diverse di migrazione, e spero di aver contribuito alla loro integrazione, ogni volta ho rincontrato me stesso poiché anch’io ho la mia storia di migrazione.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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