Aggiornamenti da un Iran passato in secondo piano

Ormai è chiaro, la nostra attenzione non è in grado di soffermarsi su troppe questioni sensibili contemporaneamente, soprattutto se scuotono sgomento e dissenso. I nostri cervelli sono ormai abituati da anni a definire automaticamente le priorità su cui investire emozioni.

 Dopo esserci ripresi da poco dal grande unico tema dell’epidemia di Corona Virus, che ha sbaragliato qualunque altro conflitto o emergenza umanitaria, a parte una breve parentesi di sconcerto nell’agosto del 2021, quando i talebani sono rientrati serenamente e senza nessun tipo di resistenza in Afghanistan, è esplosa la guerra in Ucraina. Lo sdegno internazionale per un’invasione così cruenta e così vicina all’Europa ha monopolizzato qualunque conversazione, definito pareri e spiegazioni, polarizzato proteste.

Poi durante l’estate del 2022 l’Iran è tornato prepotentemente a far parlare di sé grazie alla protesta “Donna, vita, libertà”, esplosa in seguito alla morte sotto il fermo della polizia religiosa di Mahsa Amini, portata in custodia per un velo indossato male e restituita morta alla famiglia. Sono stati scritti libri e fatti reportage bellissimi sul coraggio delle donne iraniane e sulla verità della repressione sanguinosa da parte del regime. Poi lentamente l’attenzione è scemata di nuovo per riversarsi totalmente sull’attacco terroristico di Hamas il 7 ottobre scorso e la conseguente offensiva militare israeliana sulla Striscia di Gaza.

In questi ultimi giorni un fatto importante mi ha riportato in Iran, dove un’inchiesta ha dato finalmente conferma alla reale versione sulla morte di una giovanissima manifestante Nika Shakarami. Anche lei, come la sua quasi coetanea Mahsa Amini, era stata rapita dalla polizia religiosa, in particolare da tre agenti in borghese, che in quei primi giorni di protesta, di fronte all’ondata di partecipazione furente che aveva destabilizzato il regime, avevano il compito di girare tra la folla e riconoscere gli eventuali leaders del movimento. Nika, sedici anni, era stata identificata come una leader, perché, salita su un cassonetto, aveva bruciato il suo Hijab e intonato i canti di protesta più forte degli altri. Prelevata dagli agenti poco dopo quel gesto, il suo corpo senza vita era stato ritrovato nove giorni dopo, su un marciapiede, sotto un cavalcavia. La versione ufficiale, cui i famigliari mai hanno creduto, era che si fosse suicidata.

La BBC ha impiegato sei mesi a verificare i documenti interni e segreti degli apparati di sicurezza iraniani in cui c’è la cronistoria del rapimento di Nika.

Dopo il prelevamento la ragazza viene portata e respinta da due centri di detenzione vicino al parco dove si stava svolgendo la manifestazione, perché già troppo pieni di detenuti, tutti adolescenti e ventenni. Nika si dimena, risponde agli agenti, continua a intonare canti di protesta ed è allora che i tre poliziotti, chiusi nel furgone insieme a lei perdono il controllo.

 “Ci siamo dovuti difendere” è la versione ufficiale che compare nei verbali, “la ragazza ha tentato di graffiarci”. Ci si chiede come, considerando che aveva le mani legate. Uno degli agenti seduto ai posti di guida confesserà di aver sentito colpi provenire da dietro. Quando il superiore aprirà il furgone troverà Nika distesa a terra, già morta e qunado chiamerà il quartiere generale per avvisare che hanno un cadavere la risposta sarà: “Non portarlo qui alla base che ne abbiamo già venti”.

Per una famiglia cui è stata restituita la magra consolazione della verità sui fatti, ne restano decine di altre che rivendicano almeno il diritto di veder riconosciuto alle loro figlie il valore di essere state “martiri per la libertà”, invece persistono le versioni di suicidi improbabili per pene d’amore o fatti di adulterio, che aggiungono all’ingiustizia anche l’onta del peccato religioso.

E mentre la notizia di questa inchiesta già scema in un sottofondo sempre più basso, da oltre un anno il rapper iraniano Toomaj Salehi è detenuto con l’accusa di “corruzione sulla terra” per i suoi testi in cui ha criticato apertamente la repressione della repubblica islamica.  È stato torturato e sottoposto a condizioni inumane e da pochi giorni si è diffusa la notizia che la sua pena è stata commutata in condanna a morte.

È utopico riuscire a restare coscienti su più fronti di conflitto e repressione, ma credo sia anche fondamentale evitare la selettività data dal sensazionalismo della notizia fresca e sconcertante e ricordare che ci sono battaglie lunghe e silenziose che stanno continuando, soprusi che perpetuano nella distrazione dell’opinione pubblica internazionale. Se esiste un deterrente contro tutto questo scempio di diritti umani forse sta nella nostra consapevolezza di cittadini privilegiati e nel rumore che le nostre coscienze possono ancora fare, tutte insieme, per non lasciare sole e soli, chi non ha mai smesso di lottare per la propria libertà.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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