“Morire, dormire, forse sognare…”

Proviamo per qualche istante a mettere a tacere tutte le incombenze e gli obblighi delle nostre realtà quotidiane e immaginare di poterci prendere un anno di riposo. Comincerebbero a sfilare davanti ai nostri occhi lucidi e sognanti destinazioni paradisiache dalle forti tinte di verde e turchese accesso, sensazioni calde sulla pelle nuda, corpi rilassati e visi distesi in espressioni di pace assoluta verso noi stessi e il mondo circostante. Ma se alla parola riposo aggiungessi oblio ecco che subito verremmo ridestati da un dubbio: esiste un luogo in cui posso davvero dimenticare le mie esperienze più drammatiche? Un rifugio in cui la mia memoria non abbia accesso, in cui possa resettare la mia intera esistenza, concedermi un anno per cancellarmi e restituirmi alla vita candida e nuova come un foglio bianco?

La protagonista del romanzo di Ottessa Moshfegh trova la sua risposta nel sonno. Grazie all’inconsapevole complicità di una improbabile psichiatra riesce a procurarsi una consistente scorta di sonniferi, ansiolitici e antidepressivi e da inizio al suo anno di oblio.  

In quarta di copertina si legge: «Il comico tentativo di schivare i mali del mondo attraverso un rigoroso programma di ibernazione» e ancora «Divertente, sorprendente e indimenticabile».

Nella mia personale esperienza di lettura ho provato sensazioni completamente diverse, oscillando tra il fastidio, l’antipatia e una profonda compassione per questa giovane donna cinica e alienata. Non ho trovato nulla di divertente nel suo annientamento disperato perché la potenza della scrittura di Moshfegh sta proprio nella chirurgica definizione della contraddizione umana, in grado di renderci un personaggio scostante, antipatico e superficiale e al tempo stesso così fragile e solo da indurci ad amarlo con tenerezza. Si vorrebbe irrompere nel silenzio del suo  benestante appartamento nell’Upper East Side, dove l’eco delle sue perdite risuona ossessivo e crudele a ricordarle che è l’unica superstite della sua famiglia,  scuoterla con forza dal suo torpore medicalizzato, riportarla in superficie al costo di graffi e calci e poi cullarla dolcemente come la madre che non ha mai avuto.

La forza di questo romanzo sta nel renderci la paura di vivere per quello che realmente è: non una sarabanda chiassosa di lamenti e fragorose richieste d’aiuto, ma un’alienazione lenta e silenziosa, corrosiva, fatta di maschere amare e respingenti, sarcasmi cattivi e continui tentativi di auto-sabotaggio. La protagonista vuole giocare con la morte con una superficialità disarmante, provare ad assaporarla per capire se è meglio della vita. Non c’è nessun elemento positivo in questa ricca e gelida ragazza, non c’è pietismo né possibilità di immedesimarsi eppure soffriamo con lei, per ciò che non dice, per il vuoto che lei non percepisce e noi vediamo così bruciante nelle sue azioni.  Il gioco però si fa sempre più rischioso; un farmaco in particolare crea reazioni impreviste: stati di veglia inconscia in cui esce di casa, fa cose e incontra persone di cui al risveglio non ricorda nulla. Ma non può interrompere il suo processo di trasformazione, non ha altro appiglio che continuare a dormire e così opterà per una scelta ancora più estrema, affidandosi nuovamente alla collaborazione di un improbabile e inquietante complice.

La riflessione più forte che rimane alla fine del romanzo non ha più a che fare con l’autolesionismo di una singola donna ma si espande a inglobare il disagio di un intera società, la nostra, in cui siamo sempre più portati a mettere a tacere il dolore appena si palesa, che sia fisico o psicologico, e con esso anche le nostre paure più profonde, le ferite non rimarginate, i richiami di aiuto cui non sappiamo dar voce. 

La scrittura di Ottessa Moshfegh ha una maturità sorprendente considerando la sua giovane età. Il suo nichilismo crudo e disturbante richiama un certo stile letterario che sempre più spesso si riconosce nelle nuove generazioni di scrittori ma che dal mio punto di vista ha spesso il limite di non superare la sterile volontà di provocazione. Nel suo caso invece questa scelta rappresenta il pretesto stesso per portarci altrove; sembra volerci dire: “Fidati e seguimi, non è tutto come sembra”. E noi ci fidiamo, dell’autrice, non della protagonista che è evidentemente inaffidabile, compiendo un passaggio ulteriore: scostarci da lei, prendere le distanze e osservare dall’alto l’intera vicenda.

Qui si trova il nucleo della riflessione dentro cui ci conduce l’autrice.  Se quello che vuole dirci fosse l’esatto opposto di quello che fa dire e fare alla sua protagonista? Se fosse al contrario vivendo che si scampa alla paura? Riconoscendoci tutti sull’orlo dello stesso baratro? Tutti ugualmente ridicoli nelle nostre posizioni di equilibrio precario.

Non sentite un lieve sollievo nell’immaginare una distesa infinita di buffi funamboli alle prese con le loro vite? Non vi affiora un sorriso benevolo di fronte a tanta somiglianza? La voglia di voler far parte di quel circo, di capitombolare e rialzarsi come gli altri, di inchinarsi ai fischi e piangere increduli con gli applausi, di sguaiare, fare la linguaccia, ridere in faccia alla morte e non voler andare a dormire, non avere più sonno, restare svegli per sempre. 

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