Più si è uguali, meglio si sta: lo dicono i dati

Questa è la storia di Nadia, Alberto e Luca. È la storia di quei bambini che abitano a Milano nel quartiere di Quarto Oggiaro o in quello di Scampia a Napoli. Tocca anche la vita di Steve e Kate che si trovano nella zona londinese di Bethnal Green and Bow e poi c’è Farida, che vive nel 18esimo distretto di Parigi. In comune non hanno la lingua e nemmeno particolari legami culturali. Fanno sport diversi, amano cibi diversi e hanno età diverse. Sono però tutti sono minorenni, nati in buona salute, e stanno crescendo nelle periferie (spesso più a nord) dei rispettivi centri cittadini. E poi, condividono un’altra cosa (importante per questa storia) : si ammaleranno di più e (forse) moriranno prima dei loro coetanei che vivono nei quartieri urbani più a sud, più agiati, più ricchi.

Non è preveggenza. Perché questa è una storia di disuguaglianze sociali. Il cui finale è in parte “già scritto”. La trama si svolgerà, probabilmente così: disuguali sono i livelli di istruzione (medi) che i giovani di queste periferie raggiungeranno in confronto ai loro coetanei che risiedono altrove, destinati così a ricoprire gli spazi più bassi nella scala sociale; diseguali sono le possibilità che hanno di ammalarsi di malattie croniche, come il diabete – a Torino, 8 su 100 dei residenti della periferia più povera a nord della città soffrono di diabete, mentre rapporto è 4 su 100 tra i residenti nelle zone torinesi più ricche. Diseguali sono le loro aspettative di vita – in Italia, i bambini cresciuti in condizione di povertà educativa hanno una speranza di vita inferiore di 3 anni rispetto ai coetanei più istruiti (dati dall’Atlante italiano delle disuguaglianze di mortalità per livello di istruzione, 2019).

Come nascono queste disuguaglianze? È una sorta di legge darwiniana, per la quale il più bravo e il più forte è maggiormente immune da malattie, che si accaniscono quindi su chi sta in basso nella scala sociale? Dipende dalla biologia individuale, e quindi è sufficiente agire a livello di prevenzione individuale e sull’ambiente immediatamente prossimo al singolo individuo? O c’è di più? In che modo le disuguaglianze sociali condizionano e hanno un effetto non solo su ciascuno di noi ma anche su tutti noi, che insieme costituiamo popolazioni?

Che i percorsi di vita meno salutari colpiscano maggiormente chi è più svantaggiato non è una novità, purtroppo. Nel 1964 la BBC mandò in onda Seven Up, un documentario in cui si raccontava la vita di quattordici bambini e bambine nel Regno Unito provenienti da diverse classi sociali. Il regista, Micheal Apted, intervistò poi gli stessi giovani ogni sette anni, fino a quando i protagonisti del documentario (chi di loro rimaneva ancora in vita) aveva oltre sessant’anni. Con tutti i limiti del caso (per la scelta dei bambini e il numero troppo limitato dello studio che non può essere statisticamente rilevante), il progetto televisivo metteva comunque sotto i riflettori l’interazione tra radici sociali, stile di vita e destino individuale. 

Oggi ci sono sufficienti evidenze scientifiche che confermano come la biografia di ciascuno di noi si intersechi con la biologia e ci invitano a considerare gli effetti biologici delle malattie lungo l’intero arco della vita, oltre che lungo il gradiente socio-economico. Quindi dall’infanzia.

Ce lo spiegano bene Luca Carra e Paolo Vineis nel loro saggio “Il capitale biologico”, nel quale – dati alla mano – argomentano come interventi di welfare attuati a livello sociale (per esempio promossi dalla politiche sociali e volti garantire a tutti i bambini l’accesso al piano vaccinale piuttosto che a un’alimentazione sana) portino a una riduzione della mortalità in età adulta maggiore rispetto a interventi “prossimali” (come lo sono le campagne contro il fumo rivolte a fasce adulte della popolazione). Detto diversamente, un investimento precoce e fin dall’infanzia ha un impatto importante e visibile anche nelle fasi più avanzate della vita in quanto “le conseguenze biologiche delle disuguaglianze sociali si manifestano prima dell’assunzione dei comportamenti a rischio”, prima di iniziare a fumare o a mangiare in modo poco equilibrato. Estremizzando un po’, si potrebbe dire che l’essere più o meno soggetti a infarto e diabete va anche messo in relazione ai contesti e comportamenti che predispongono l’obesità, quindi il crescere in zone prive di spazi verdi (che per tanto non promuovono l’attività fisica); le ore passate seduti di fronte alle televisione o ai video-giochi; il consumo di bevande zuccherate e cibi fast-food. 

“Oltre un certo limite (la mezza età) – scrivono Carra e Vineis – molti danni si sono già sedimentati” così quello che si può fare è la riduzione del danno, lavorando a livello individuale. Ed è su questo piano che spesso governi e istituzioni si trovano a lavorare, con campagne mirate. “Il capitale biologico” invece invita a solcare anche un’altra strada, ancora largamente da esplorare. Si tratta di integrare la prospettiva concentrata sui fattori di rischio legati a comportamenti individuali con un approccio che esamini il ruolo dei determinanti di carattere sociale.

Secondo una stima di Michael Marmot, che presiede la Commissione sui determinati sociali di salute istituita nel 2005 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, se in Gran Bretagna tutta la popolazione nel suo complesso completasse gli studi fino alla laurea, si conterebbero 200 mila morti in meno all’anno. Studi come questo connettono due mondi, fino a oggi ancora troppo spesso distanti e incomunicanti, quello della società e della biologia, quindi delle scienze sociali e la scienza naturale. Ci dicono anche quanto sia importante attuare politiche adeguate rivolte a tutta la popolazione e a tutte le fasce di età per il loro effetto sulla salute pubblica. E suggeriscono, in ultima analisi, che più si è uguali, meglio si sta. 

Seguici

Cerca nel blog

Cerca

Chi siamo

Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

Ultimi post