Quale passato ci è utile?

Ogni Paese ha date di memoria collettiva, che ogni anno vengono preannunciate dal riaffiorare di articoli e ammonimenti sull’importanza di ricordare. 

La memoria è il nostro patrimonio storico, si dice, ciò che ci protegge dal rischio di ricadere negli stessi errori. 

Evidentemente c’è ancora qualche intoppo nel processo che dal ricordare i grandi eventi tragici e virtuosi dell’umanità porti a una presa di coscienza più profonda in grado di innescare un reale cambiamento sociale. Ma questa è un’altra storia, che non tratterò. 

Oggi vorrei riflettere con voi sul tema della memoria individuale attraverso tre libri che ho letto recentemente e che trattano tutti questo tema, con spunti differenti ma una riflessione comune: quanto passato può sopportare una persona? Perché se è vero che la struttura costituente di una collettività è data soprattutto dalla propria memoria storica, quanto influisce invece il passato nell’ identità personale e quanto di questo passato è necessario per definirsi?

Nel romanzo “Cronorifugio” di Georgi Gospodinov, vincitore del Premio Strega Europeo 2021, Gaustín, un bizzarro personaggio che viaggia nel tempo, realizza a Zurigo la “clinica del passato” per aiutare i pazienti affetti da Alzheimer o da altre patologie da perdita di memoria a recuperare i proprio ricordi. Ogni piano di questo edificio rappresenta un decennio: anni ‘50, ‘60, ‘70,  attraverso la realizzazione di spazi domestici e pubblici, ricchi di oggetti specifici appartenenti a quel determinato periodo storico. 

Frequentando questi “piani del tempo” i pazienti recuperano sensazioni appartenenti al loro passato, riallacciano dialoghi e incontri, soffrono e a volte si liberano. Nella seconda parte del romanzo la fama della clinica esce dai confini nazionali e molte persone si presentano al cospetto di Gaustín senza problemi di memoria, ma con il desiderio di recuperare un particolare periodo della propria vita, rimasto confuso e rarefatto. Finché non viene indetto un referendum mondiale per decidere di riportare ogni stato del mondo al proprio decennio d’oro, al fine di attuare una sorta di rinascita sociale attraverso i fasti del proprio passato. 

Rimane una domanda aperta a fine lettura, la stessa che porta a porsi il romanzo distopico “La casa di marzapane” di Jennifer Egan, vincitrice, con il suo precedente libro “Il tempo è un bastardo”del Premio Pulitzer 2011.

È più proficuo o deleterio riportare alla luce il passato che abbiamo dimenticato?

Il processo di selezione che la nostra mente ha attuato nel tempo per rimuovere alcuni passaggi della nostra esistenza, insieme alle parole effettive e alle emozioni provate, è stato del tutto automatico o esiste un’intenzionalità inconscia che ci porta a proteggerci da ciò che non deve restare? 

La casa di marzapane cui si riferisce Jennifer Egan è proprio questo: l’idea che un giorno pagheremo per tutto questo accesso illimitato e gratuito alle informazioni delle vite degli altri e della nostra, come Hansel e Gretel pagarono la loro abbuffata.

Nel romanzo infatti una nuova tecnologia chiamata “Riprenditi l’inconscio”consente alle persone di accedere a qualsiasi ricordo abbiano mai avuto e di condividerlo in un grande database in cambio dell’accesso ai ricordi degli altri. 

Attraverso una narrazione ad incastro si intrecciano le storie dei vari personaggi per portare il lettore a riflettere sulle varie possibili conseguenze di un accesso illimitato al proprio passato. 

Avere la possibilità di rivivere la stessa scena attraverso i ricordi di un’altra persona presente e coinvolta fa emergere un altro aspetto interessante, sulla fragile affidabilità di cui disponiamo rispetto al nostro ricordare fatti ed emozioni, che possono non coincidere con quelli di qualcun altro a noi molto vicino. 

Il racconto dello stesso incontro tra due persone può portare alla luce dettagli e sfumature completamente diverse.

Ma se manipoliamo più o meno consciamente i nostri ricordi come si può scrivere di se stessi e della proprio storia famigliare senza mentire?

È il dubbio che rimane alla fine della lettura di “Niente di vero” di Veronica Raimo, che già dal titolo fa intuire il gioco che vuole fare con noi e con se stessa, attraverso un ritratto sagace e spietato della sua infanzia, in cui l’esigenza dell’invenzione si fonda con le ferite aperte, creando un racconto ironico, strafottente e irrimediabilmente nostalgico. 

La profonda empatia che si prova per la protagonista e autrice porta a pensare che forse alla fine non è importante quanto ricordiamo e come vogliamo ricordarlo, perché tutti attingiamo dal medesimo calderone di esperienze più o meno tragicomiche. Tutti siamo stati vessati in periodi della vita in cui non avevamo la forza né la lucidità per reagire, più o meno ognuno di noi ha subito e inferto abbandoni, si è pentito e ha sofferto per parole che non andavano dette, ha pianto di gioia e di sconcerto per l’imprevedibilità di certi eventi.

E allora forse il grande contenitore di ricordi descritto nella “Casa di marzapane” può essere inteso come una nuova forma di memoria collettiva, meno storica, molto più intima e vicina ad ognuno di noi. 

Forse di questo ha bisogno un popolo per sentirsi veramente tale: sapere di aver amato, gioito, perso, come qualunque altro popolo. E questo può avvenire solo continuando a raccontare e raccontarci, come sanno fare tanto bene i nostri autori contemporanei, che siano italiani, bulgari o americani, inventando futuri possibili e inquietanti o riportandoci indietro.

La letteratura è memoria, questo è l’unico dettaglio da non dimenticare mai.

Seguici

Cerca nel blog

Cerca

Chi siamo

Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

Ultimi post